Diventare madre e padre nello Spirito
di Don Nico Dal Molin
E’ vera madre chi…
- Vera madre è chi, pure stando in silenzio e non invadendo, fa sentire la sua vicinanza, il suo sostegno, il suo amore nei momenti di dolore.
- Vera madre è colei che, invece di dirci cosa dobbiamo fare o dove dobbiamo andare, ci ascolta, ci aiuta a esplorare le nostre ferite, ci offre l’occasione per stare da soli e di affrontare il rischio di penetrare nei sentimenti spesso imbarazzanti e disonorevoli, rintracciandone le radici.
Suggestive a riguardo risultano le parole di Diadoco di Fotico sulla paternità spirituale.
Secondo lui, dobbiamo mantenere calma la superficie per vedere bene fino in fondo all’anima: «Quando il mare è calmo, gli occhi del pescatore possono penetrare fino al punto dove potrà distinguere i vari movimenti nella profondità delle acque e nessuna delle creature che si muovono per i sentieri marini gli può sfuggire. Ma il mare, quando è increspato dal vento, nasconde nella buia agitazione ciò che mostra nel sorriso di una giornata serena»4.
Qual è l’importanza di tutto questo? Diadoco dice che a mente serena possiamo distinguere le ispirazioni buone da quelle cattive, in modo da custodire gelosamente le prime e allontanare le altre.
- E’ vera madre colei che non cerca di cambiare l’altro. Ed è forte in noi la tentazione di cambiare gli altri. E’ un diritto e una pretesa che inconsapevolmente rivendichiamo. A che cosa serve la vita se non ci adoperiamo ad aiutare gli altri? A plasmarli secondo i nostri progetti (che naturalmente chiamiamo di Dio)? A farli pensare come la pensiamo noi?
Non ci passa neppure per la testa che tanti nostri atteggiamenti sono dettati dalla voglia di avere tante persone che ci attorniano, di fare proseliti e non invece di stabilire una relazione fraterna e paterna.
Illuminante è una storia di A. De Mello: «Per anni sono stato un nevrotico. Ero ansioso, depresso ed egoista. E tutti continuavano a dirmi di cambiare. E tutti continuavano a dirmi quanto fossi nevrotico. E io mi risentivo con loro, ed ero d’accordo con loro e volevo cambiare, ma non ci riuscivo, per quanto mi sforzassi. Ciò che mi faceva più male era che anche il mio migliore amico continuava a dirmi quanto fossi nevrotico. Anche lui continuava a insistere che cambiassi. E io ero d’accordo anche con lui, e non riuscivo ad avercela con lui. E mi sentivo così impotente e intrappolato. Poi, un giorno, mi disse: “Non cambiare. Rimani come sei. Non importa se cambi o no. Io ti amo così come sei; non posso fare a meno di amarti”. Quelle parole suonarono come una musica per le mie orecchie: “Non cambiare. Non cambiare. Non cambiare… Ti amo”. Allora mi rilassai. E mi sentii vivo. E, oh meraviglia delle meraviglie, cambiai »5.
Solo accettando la persona come è, la aiutiamo a migliorarla e a diventare come vuole essere.
- E’ vera madre colei che non ha un’idea astratta del figlio/a, perché l’idea distorce la realtà e non fa vedere. Non lo vive come oggetto del proprio desiderio, volendolo migliore. E’ un pieno amore nella concretezza…
- E’ vera madre, ancora, colei che ama vedendo realmente l’altro.Vedere è morire al proprio io, alle proprie categorie mentali, ai pregiudizi, alle etichette, alle aspettative, ai giudizi e alle esperienze passate.
Dopo questa carrellata di «identikit materni», a chi fare riferimento? Dove trovare una risposta? Il Vangelo di Luca, al capitolo 15, ci presenta un modello.
«Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a fare festa» (Lc 15,20b-24).
In questi pochi versetti, ciò che è più divino viene espresso con ciò che c’è di più umano. Sono evidenziati quattro movimenti che Dio compie nel suo essere padre: vedere – accogliere – prendersi cura – fare festa.
Sono i movimenti che siamo chiamati a compiere anche noi, se vogliamo diventare padri e madri.
Questo padre non ha un’idea astratta del figlio, proprio perché l’idea distorce la realtà, e non fa vedere. Così ad esempio l’idea del vino non è il vino e nessuno si è mai ubriacato per aver compreso intellettualmente la parola vino.
Questo padre non ha l’idea del figlio che deve corrispondere a determinati canoni e modelli. Non lo etichetta come figlio degenere e scapestrato. Non lo vive come un oggetto del proprio desiderio, volendolo migliore.
Piuttosto, questo padre ama suo figlio, quale realmente è, qui e ora nella sua concretezza, nella sua unicità, nella sua vitalità, nella sua povertà e non come è nei suoi ricordi, nelle sue aspettative, nella sua immaginazione.
Amare è vedere realmente l’altro e vedere è morire al proprio io, cioè alle proprie categorie mentali, ai pregiudizi, alle etichette, alle aspettative, ai giudizi, ai legami derivati dai condizionamenti subiti e dalle esperienze passate. Questo implica una severa disciplina: mettere a tacere i nostri desideri, i nostri pregiudizi, i nostri ricordi, le nostre proiezioni, la nostra maniera faziosa di guardare, i nostri ostinati punti di vista.
«Commosso, gli corse incontro». C’è un dipinto di Rembrandt, risalente al 1668-1669 (è stato lo spunto per H. J. M. Nouwen (1932-1996) nello scrivere il libro L’abbraccio benedicente), che mostra con una maestria particolare l’accoglienza che il padre riserva al figlio. E’ un dipinto, ora all’Ermitage di San Pietroburgo, che affascina e commuove. C’è un padre con la mano sinistra forte e muscolosa, mano tipicamente maschile, che si posa sul figlio con una certa delicatezza e lo stringe a sé con energia e nello stesso tempo lo sorregge.
La mano destra, raffinata, delicata e tenera, si posa dolcemente sulla spalla del figlio. E’ una mano che vuole accarezzare, calmare, offrire conforto e consolazione. E’ una mano di madre. Questo padre tocca il figlio con una mano maschile e femminile. Lui sorregge, lei accarezza. Lui rafforza e lei consola. Il nostro Dio è un Dio Padre e Madre. «Si dimentica forse una madre del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io non ti dimenticherò mai. Ecco, io ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me» (Is 49,15-16).
Inoltre questo padre cerca il figlio da lontano, vuole trovarlo e desidera portarlo a casa. Ha bisogno del figlio quanto lui ha bisogno del padre.
Dio non è il patriarca che se ne sta a casa e aspetta che suo figlio vada da lui, si scusi per il suo comportamento, chieda perdono e prometta di essere migliore. Al contrario, lascia la casa, corre verso di lui, incurante della propria dignità, non bada a scuse e promesse di cambiamento, anzi sembra che non lo ascolti nemmeno quando dice: «Padre ho peccato contro il cielo e contro di te…», e lo porta alla tavola riccamente imbandita per lui.
Signore, voglio rivolgerti solo una preghiera. «Fammi sentire una profonda nostalgia di Te. Fammi sentire padre e madre».
Essere padre e madre è avere lo stesso cuore di Dio.
Questo padre si prende cura personalmente e concretamente del figlio. «Portate subito il vestito più bello, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi». Sono attenzioni personali, concrete, delicate – si noti «il vestito più bello», che rivelano il volto del padre.
Compito del padre è armonizzare i conflitti dei figli, è esortare con interesse perché la vita tutta intera sia vissuta nel segno dell’unità: non professata a parole, ma testimoniata con i fatti.
«Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa».Questo padre si rallegra, non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché milioni di persone si sono convertite. No, questo padre si rallegra perché uno dei suoi figli, che era perduto, è stato ritrovato.
Statisticamente non è rilevante. Ma sembra che a questo padre i numeri non interessino.
Noi siamo abituati a sentire storie dolorose, problematiche, difficili e ingarbugliate. Siamo preparati a ricevere cattive notizie, a leggere di violenze, crimini e a essere testimoni di conflitti.
Dobbiamo imparare a fare festa e ad assaporare le gioie semplici e concrete di ogni giorno… Piccole gioie che ci tolgono dalla tensione, dalla frustrazione e serietà nella quale ci immergiamo, come se tutto il mondo poggiasse sulle nostre spalle.
Piccole gioie che dobbiamo prenderci e non sentirci assolutamente in colpa, pensando che ciò significhi sottrarre tempo alle attività pastorali.
Chi ci osserva e chi ci cerca ha tutto il diritto di trovarci sereni, rinfrancati e armonici. Se fossimo più pieni della gioia di Dio e più integrati con noi stessi renderemmo di più e saremmo ricercati di più dai nostri fedeli proprio per quel pizzico di gioia che facciamo trasparire dai nostri volti e non trovano nelle caricature di tanti padri.
C’è una via per questa paternità e maternità spirituale? Oppure siamo condannati a ricorrere all’autorità del potere anziché all’autorità della misericordia?
Le vie che portano ad una vera paternità e maternità di misericordia sono: il dolore, il perdono, la generosità.
Per diventare padre la cui unica autorità è la misericordia, siamo chiamati a ricevere chiunque, qualunque itinerario abbia percorso, a versare lacrime e a sentirci a volte svuotati dalla sofferenza. Essere padre e madre è generare alla vita e generare è soffrire. Forse è per questo che ci sono poche persone disposte a rivendicare di essere padri e madri nella contrazione da grembo.
La seconda via che conduce alla paternità spirituale è il perdono che viene dal cuore. Anche se abbiamo detto: «Ti perdono», il nostro cuore può rimanere chiuso nella rabbia, nel risentimento, nella sfiducia.
La terza via è la generosità. Essere generosi è agire in base alla verità che coloro, ai quali ci si chiede di perdonare, appartengono alla nostra stessa famiglia. Non a caso la parola generosità ha in comune con le altre parole quali «genere», «generazione», «generatività», la radice «gen».
«La verità è misericordia pura, dalla quale dobbiamo essere rivestiti da capo a fondo per poterci dire cristiani».
Termino con le parole di un grande scrittore contemporaneo H. J. M. Nouwen, che ha incontrato il volto mite e festoso del Salvatore: «C’è un vuoto terribile in questa paternità/maternità spirituale. Niente potere, niente successo, nessuna popolarità, nessuna facile soddisfazione. Ma questo terribile vuoto è anche il luogo della vera libertà. Il luogo dove “non c’è niente da perdere”, dove l’amore non è costretto da legami e dove si può trovare la vera forza spirituale».
da Consacrazione e servizio, supplemento n. 2 del 2003