Archivio per giugno, 2015

cons dorotte
Vivo ad Asolo con la mia comunità … la nostra casa è una casa di spiritualità, di preghiera: un luogo pensato per tutti quelli che desiderano incontrare il Signore. Sono suor Lisa, ho 35 anni, sono suora Dorotea.

E chiunque ha incontrato il Signore sa anche che non è semplice parlare di questi incontri, perché sono incontri molto personali e perché spesso il Signore parla attraverso cose piccole, feriali, quotidiane….non sempre ci sono cadute da cavallo o fuochi d’artificio.

Il Signore parla a ciascuno in modo diverso, personale….e chiama, chiama tutti ad una VITA BELLA!

Il Signore chiama perché vuole donarci qualcosa di bello, di grande, di prezioso. Desidera per noi una vita bella e questa vita bella per alcuni si concretizza in una famiglia, per altri nel sacerdozio, per altri nella vita consacrata…

A volte è difficile scegliere come orientare la propria vita, almeno per me lo è stato, perché non si trattava di scegliere tra un bene e un male, tra una cosa bella e una cosa brutta, ma TRA 2 BENI: la famiglia e la vita consacrata…e non è stato semplice capire qual era il bene più grande.

Mi ha aiutato molto il confronto con la mia guida spirituale che tante volte mi ha ascoltato/Accolto e mi ha sempre lasciato libera… “solo” pregava per me e mi aiutava/aiuta a cogliere nella mia vita i segni della presenza del Signore.

E così nell’accompagnamento spirituale, nella preghiera, nella quotidianità…ho conosciuto un Dio che non conoscevo. Ho visto che Dio non mi chiedeva nulla e mi offriva molto, mi dava tutto, molto più di quanto avrei potuto immaginare o chiedere…

Lui è così: è buono! Non condanna, non giudica, sempre accoglie, sempre perdona…e parla al cuore attraverso incontri, persone, dialoghi, immagini, pensieri…suscitando nel cuore una domanda, a volte una speranza, a volte una sana inquietudine, MA è sempre per un bene più grande.

Questo è il Dio che ho incontrato e vi posso dire che vale la pena mettersi in ascolto della Sua Parola, della Sua volontà.

A volte noi facciamo di tutto per realizzare la nostra vita come vogliamo noi e facciamo di tutto per essere soddisfatti di quello che facciamo, viviamo. Ma se ci guardiamo un po’ attorno, vediamo che ci sono tante persone “realizzate”, ma che non sono proprio felici. Magari hanno un buon lavoro (che di questi tempi non è poco), hanno un certo successo, soldi…ma la felicità è un’altra cosa.

La felicità è relazione, è un incontro è stupore! Questa è la felicità che il Signore promette e anche ci dona! Lui è fedele! Vale la pena seguirlo.

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A Massa, è morta suor Rosaria, missionaria e direttrice di casa Faci

CONS FACI

Ci ha lasciato venerdì mattina intorno alle ore nove, stroncata da una malattia incurabile all’ età di 61 anni Maria Rosaria Dalle Mura, suora della fraternità “ Figlie di Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù” e direttrice di Casa F.A.C.I a Marina di Massa. Conosciutissima anche fuori dalla provincia di Massa-Carrara, Suor Rosaria era originaria di Capezzano Pianore e fin da giovanissima, a soli diciotto anni, decise che la sua vita sarebbe stata al servizio del Signore e delle persone più bisognose ed entrò in confraternita per prendere i voti. Dal 1997 Maria Rosaria, grazie alla sua devozione per il lavoro, fu eletta direttrice di Casa F.A.C.I (struttura alberghiera gestita dalle Figlie di Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù, che ospita anche gli immigranti) e da quel giorno con devozione ed umiltà, gestiva l’intera attività. Amata e stimata da tutti, lascia un vuoto incolmabile tra i parenti gli amici e i colleghi, che la ricordano come una persona buona, generosa e sempre pronta ad ascoltare e consolare tutti coloro che ne avessero avuto bisogno, proprio come una mamma fa con i suoi figli.

«E’ stata un esempio di vita per me, con la sua semplicità ed il suo rigore, mi ha insegnato ad ascoltare il prossimo, a coltivare l’amore per il Signore nella vita di tutti i giorni e, a donare me stessa senza alcun timore personale. Era come una madre per me, una guida spirituale, che ti indica la strada nei momenti più duri della vita. Anche con i ragazzi immigranti che sono arrivati da noi, ha sempre aiutato e dato una parola buona a tutti, tanto che era soprannominata la “mamma” », racconta Suor Maria Ausilia.

«Con la morte di Suor Rosaria, -continua Don Ivo parroco di Marina di Massa-, abbiamo perso un punto di riferimento per tutta la comunità, perché lei oltre che essere stata una donna dolce e generosa sapeva consolare e riportare la pace nello spirito anche nei sacerdoti, che proprio qua a Casa F.A.C.I venivano in riposo ed in preghiera. Maria Rosaria infatti non si tirava mai indietro quando qualcuno aveva bisogno di lei, neanche la guerra riuscì a fermare la sua voglia di donare la sua vita per gli altri e negli anni novanta fu addirittura missionaria in Ruanda, villaggio dell’ Africa. Poi tornò in Italia e si mise a disposizione delle ragazze madri in una casa famiglia di Pisa e poi ancora in un Seminario di Lucca e successivamente a Montecatini. Una vita spesa per gli altri, per testimoniare anche quando era malata ormai terminale, che l’amore di Dio era più forte di qualsiasi altro problema.

E così anche quando stava ormai per morire, Rosaria con il sorriso sulle labbra diceva sempre: «Metto la mia vita in mano al Signore, faccia di me ciò che vuole». Presso Casa F.A.C.I è stata allestita anche la cappella in ricordo di Suor Maria Rosaria, dove si sono recate per darle l’ultimo saluto, già più di trecento persone. La salma di Suor Rosaria partirà questa mattina, domenica 28,  alle ore 12 dalla cappella di Marina di Massa e i funerali si terranno alle ore 15 nella parrocchia di Capezzano Pianore. «Non scorderò mai Maria Rosaria, anche la malattia è stata vissuta da lei con dignità e non si è mai lamentata, neanche in punto di morte per il dolore che provava. Ha lavorato, servendo gli ospiti e i ragazzi immigrati qua ospitati da noi, fino allo stremo delle sue forze. Di lei ora rimarrà un bellissimo ricordo, che accompagnerà tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerla», conclude Claudio Pucciarelli responsabile del gruppo d’accoglienza immigrati.

Articolo tratto da: IL TIRRENO

cons angela m8 Tra il materiale inedito raccolto dalla rivista Vida religiosa del gesuita Bergoglio – oggi Papa Francesco – sulla vita consacrata, vi è il suo intervento nel Sinodo celebrato nel 1994 sulla vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Questo intervento fu tenuto nella XVI congregazione generale, il 13 ottobre 1994 dall’allora Vescovo ausiliare di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio.

1. Quando il Concilio ci dice che la vita religiosa è un dono dello Spirito alla Chiesa, sottolinea non solo la natura del dono, ma anche la realtà a cui il dono è offerto: la Chiesa, il corpo ecclesiale. Forse è per questo, secondo il mio parere, che è molto più ricco e intenso quanto viene detto sulla vita religiosa nella Lumen gentium di quanto si dice nel Perfectae caritatis. Questo riferimento serva per determinare la cornice nella quale si deve considerare la vita religiosa, per non correre il rischio di disorientarci e disperderci, cadendo nell’attitudine di esaltare le famiglie religiose per il loro «carisma fondazionale», ignorando l’appartenenza alla totalità della Chiesa. La cornice è la Chiesa: la vita consacrata è dono alla Chiesa, nasce nella Chiesa, cresce nella Chiesa, è tutta orientata alla Chiesa.

2. Il Documento di Santo Domingo quando parla dell’evangelizzazione, esprime con chiarezza questo principio: «L’opera evangelizzatrice, ispirata dallo Spirito Santo, che all’inizio ebbe come generosi protagonisti soprattutto i membri di ordini religiosi, fu un’opera congiunta di tutto il popolo dì Dio, di vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici» (SD 19) e lo attualizza per oggi: «Il soggetto della nuova evangelizzazione è tutta la comunità ecclesiale secondo la natura di ciascuno: noi vescovi in comunione con il Papa, i nostri presbiteri e diaconi, i religiosi e le religiose e tutti gli uomini e le donne che costituiamo il popolo di Dio» (SD 25). La chiamata all’evangelizzazione è oggi al centro della missione della Chiesa e spetta a tutti: chierici, religiosi e laici. In essa devono impegnarsi le migliori energie e le più valide programmazioni dei prossimi anni. In essa devono cooperare gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ciascuno conforme il proprio carisma e senso apostolico» (1). Questa è la cornice. Va sottolineato un particolare: all’interno di questo ambito i religiosi sono stati certo all’avanguardia: «L’urgenza della nuova evangelizzazione in America Latina esige che i religiosi, oggi come ieri, e in collaborazione con i loro Pastori continuino a rimanere all’avanguardia della predicazione» (2). Già Paolo VI lo diceva esplicitamente al n. 69 della Evangelii nuntiandi.

3. Ho detto che la realtà ecclesiale era una cornice nella quale inserire la vita religiosa. È evidente che uso un termine di indole «logica» per poter esplicitare le «relazioni» che qui è necessario evidenziare. Si tratta, quindi, di una semplice questione metodologica: non si può riflettere sulla vita consacrata se non all’interno della Chiesa. Mi piace pensare queste relazioni in termini di tensione, per cui la cornice sarà cornice di tensioni. Così va inteso, perché è una cornice di vita. Ogni tensione si realizza fra polarità; quindi, come si risolve? Una tensione non si può risolvere per assimilazione di uno dei poli, e neppure per sintesi (di tipo hegeliano) che annulli le polarità. La tensione (e in questo caso la tensione ecclesiale) deve risolversi in un piano superiore, che non sia sintesi, ma che la soluzione contenga virtualmente le polarità che producono le tensioni. In tal modo si mantiene l’organicità della vita e si comprende la capacità di un organismo vivo (come è la Chiesa) di retrocedere verso posizioni apparentemente o realmente già superate: se è possibile retrocedere è perché ha mantenuto in sé la virtualità di ciascuno dei poli in tensione.

4. Forse si può comprendere meglio tutto ciò considerando il tema del pluralismo. Giovanni Paolo II diceva ai vescovi argentini, a Buenos Aires, il 12 aprile 1987, parlando dell’unità della Chiesa: «Questa unità non è uniformità; effettivamente, non annulla la legittima diversità di accenti pastorali e di priorità o iniziative in consonanza con le diverse necessità e circostanze delle vostre diocesi. Ma è anche certo che l’unità esige sempre che le particolarità si integrino in una armonia che le superi senza annullarle». Rispetto a questo voglio ricordarvi una delle conclusioni del Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, che corrisponde alla sottile ma decisiva distinzione tra pluriformità e pluralismo: «La pluriformità è una vera ricchezza e apporta con sé una pienezza, è essa stessa cattolicità, mentre il pluralismo fondato sulla giustapposizione di posizioni opposte, conduce alla dissoluzione, alla distruzione, alla perdita della propria identità» (3). Forse ciò che differenzia sostanzialmente il pluralismo dalla pluriformità è che questa ha una realtà centripeta che armonizza polarità diverse e in tensione, rendendo possibile la realtà di una «unitas ordinis», mentre il pluralismo è una semplice «unitas accumulationis».

5. La vita religiosa va concepita inserita nella pluridimensionalità che costituisce «la Chiesa e attraverso la quale la Chiesa si manifesta». Questa pluriformità «ordina» e dà senso ai diversi carismi. Il carisma di una famiglia religiosa non è un patrimonio chiuso che bisogna custodire, ma e piuttosto una «sfaccettatura integrata» nel corpo della Chiesa, attratta verso il centro, che è Cristo. In un certo senso, una famiglia religiosa è famiglia in quanto è integrata nella grande famiglia del santo e fedele popolo di Dio. Se non fosse così, sarebbe «plurale» e, pertanto, sarebbe una setta, perché il pluralismo che si oppone alla pluridimensionalità è una semplice pluralità di convivenza, senza vera integrazione… e con la scusa di «essere plurale» si difendono particolarismi chiusi come monadi egoiste. Vorrei fare un’altra precisazione rispetto al carisma: corriamo il rischio di considerarlo solamente come un «contenuto», ma non è così. Ogni carisma di fondazione include un «contenuto», ma, al tempo stesso, anche un «modo d’essere», un «modo di procedere» peculiari. Questo è importante quando di tratta di «aggiornare» un carisma di fondazione.

6. Il soggetto e l’oggetto dell’evangelizzazione è il santo popolo di Dio. In questo popolo camminano, peregrinano nella fede le famiglie religiose. Per il momento vorrei risaltare solo un aspetto di questa realtà: il «sentire» del popolo fedele di Dio. Il nostro popolo fedele «sente bene» la sua totalità. Si tratta del sensus Ecclesiae, del sensus Christi nella Chiesa. Una famiglia religiosa, attraverso le tensioni proprie della pluridimensionalità, partecipa di questo «sentire» del santo popolo di Dio. La Chiesa ha voluto definire un aspetto di questo sentire: la sua infallibilità. Il popolo di Dio, nel suo insieme, è infallibile in credendo (4). Questo è importante per una famiglia religiosa. La sua vita dipende dall’adeguarsi a questo sentire del popolo fedele di Dio, che non può errare nel credere. La Gerarchia sarà infallibile in docendo (alla vita consacrata non le è concessa questa infallibilità; in caso contrario ci sarebbe un «magistero parallelo»)… mentre le appartiene l’altra infallibilità: in credendo, nella misura in cui partecipa e non si allontana dal «sentire nella fede» del santo popolo fedele di Dio.

7. Tra i «rinnovamenti» sbagliati della vita religiosa vanno annoverati i fondamentalismi restaurazionisti ai margini del reale e concreto peregrinare del santo popolo fedele di Dio. Essi si creano coperture di spiritualità inseriti a margine del cammino del popolo fedele. Un rinnovamento della vita religiosa deve realizzarsi sempre all’interno del peregrinare nella fede del popolo di Dio, alla luce del suo «sentire», del suo «modo di credere» infallibile. Le élites religiose sono state e sono sempre pericolose: portano in sé l’eresia essena che rifiorisce ad ogni momento in questi messianismi.

8. La vita religiosa dovrebbe essere considerata nella cornice ecclesiale delle tensioni. La prima tensione, quella tra la famiglia religiosa e il popolo fedele di Dio, a volte si risolve male e si conforma in modo peccaminoso. Puebla richiama l’attenzione su questo punto: «Esistono tensioni… si può perdere di vista la missione pastorale del vescovo o il carisma proprio dell’Istituto» (736s). Anche il Papa lo indica: «Le relazioni tra vescovi e religiosi sono, in generale, soddisfacenti… Non sono mancate, tuttavia, in determinate situazioni, alcune incomprensioni e forti contrasti che non corrispondono alla vera ecclesiologia di comunione e perturbano la pace e la concordia, influendo negativamente sulla evangelizzazione della Chiesa» (5). Questa tensione (e le sue malformazioni) si risolve con una concezione ecclesiale di comunione e di partecipazione: «Il rinnovamento della vita consacrata si realizza con un’intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale» (6).

9. In questa stessa linea voglio segnalare una seconda tensione che spesso oscura l’apporto che la vita religiosa dà alla Chiesa: la tensione tra Chiesa particolare e la Chiesa universale che, in una famiglia religiosa si riflette in modo particolare per l’universalità dell’Istituto. Un’errata soluzione di questa tensione ha portato (e a volte porta) a un uso abusivo della «esenzione» (o le sue analogie). Appaiono allora religiosi o comunità «sciolte», senza alcun inserimento concreto. Pretendono di essere talmente universali che diventano non-particolari. La vera universalità si esprime, prende corpo, nel particolare. Un «buon particolare» non è mai astrazione dall’universale… è vita concreta in cui è già presente l’universale. Ne deriva che la maggiore perfezione, in questo senso, di un religioso o di una comunità religiosa, è poter esplicitare l’universale concreto del suo essere; il contrario può essere il particolare travisato, come l’internazionalismo: «Ovunque siate nel mondo, siete, per la vostra vocazione, a servizio della Chiesa universale, attraverso la vostra missione in una determinata Chiesa locale. La vostra vocazione per la Chiesa universale si realizza nelle strutture della Chiesa locale. È necessario fare tutto il possibile perché la vita consacrata si sviluppi in ciascuna delle Chiese locali, contribuisca alla sua edificazione spirituale e costituisca una sua forza speciale» (7). «La Chiesa particolare costituisce lo spazio storico nel quale una vocazione si esprime realmente e realizza il suo compito apostolico» (MR 23). L’espressione «spazio storico» si riferisce al tempo e allo spazio, lasciando aperta ogni situazione in cui si vive l’universale concreto. I Lineamenta lo esplicitano: «La relazione particolare tra la vita consacrata e la Chiesa particolare è stata evidenziata dal decreto conciliareChristus Dominus, in cui si afferma che i religiosi sacerdoti appartengono, a vero titolo, al presbiterio diocesano… gli altri membri degli Istituti di vita consacrata, sia uomini che donne, appartengono alla famiglia diocesana e offrono un notevole apporto alla Gerarchia» (39).

10. All’interno della cornice ecclesiale possiamo individuare una terza tensione, quella che esiste tra il proprio carisma e le necessità del mondo. I Lineamenta la esplicitano: «Il rinnovamento della vita consacrata [si attuerà] con una intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale, in consonanza col proprio carisma e le nuove necessità della Chiesa e del mondo» (31d). Il Vaticano II, parlando dell’adeguato rinnovamento della vita religiosa, coniuga cinque aspetti: ritorno alle fonti, cioè ritorno al Cristo del Vangelo; ritorno allo spirito dei fondatori; comunione nella vita della Chiesa; conoscenza del mondo moderno; rinnovamento interiore. I cinque aspetti sono in reciproca tensione e, in tal modo, presentano una visione reale dell’adeguato rinnovamento voluto dalla Chiesa.

11. Le necessità non devono livellare malamente la diversità dei carismi, ma neppure questi devono ridursi a uno stile particolarista che non permetta di vedere e di farsi carico delle necessità. In quest’ultimo caso è in gioco la questione del servizio; nel caso precedente (livellamento) si gioca l’originalità del servizio. Ci viene richiesto un costante atteggiamento deuteronomico: ricordare per farsi carico qui e adesso… Questo significa consolidare la Chiesa, ogni giorno, «dal posto che mi compete nella Chiesa» (il mio carisma), ma contemporaneamente consolidare la Chiesa permettendo che le necessità si confrontino con il carisma della famiglia religiosa per ricrearlo costantemente. Questa tensione tra il proprio carisma e le necessità del tempo attuale si risolve con una maggiore coscienza del senso storico, secondo lo stile di san Vincenzo di Lérins: …ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. Una soluzione errata di questa tensione conduce sempre a un riduzionismo dell’universale.

12. Questo mi offre l’opportunità di toccare un tema che è presente in tutta questa problematica. Nelle ultime decadi sono sorte soluzioni di tipo funzionalista in cui la tensione universale-particolare e la tensione carisma-necessità si risolvono a un livello insufficiente che annulla le virtualità proprie di ogni polo in tensione: mi riferisco alle diverse forme di internazionalismo. La funzionalità dell’internazionalismo riempie lo spazio che, a causa dell’errata soluzione delle tensioni, lascia vuoto il senso dell’universale. Probabilmente proprio questa è la radice del più grave problema della vita consacrata, oggi. Ne accenno utilizzando una categoria di Henri De Lubac: «La mondanità spirituale». Lo «spirito del mondo» entra nel midollo stesso dell’appartenenza della vita consacrata alla Chiesa sotto forma di funzionalità. I mezzi tendono a occupare il luogo dei fini, le cause strumentali quello delle cause finali. Ci può essere una mondanità spirituale quando ci si preoccupa eccessivamente del proprio carisma prescindendo dal suo reale inserimento nel santo popolo di Dio, confrontandosi con le necessità concrete della storia… e anziché essere «un dono dello Spirito alla Chiesa», la vita religiosa, così configurata, finisce per essere un pezzo da museo o un «possedimento» chiuso in se stesso e non messo al servizio della Chiesa. «La Chiesa non è stata istituita per essere un’organizzazione di attività, ma come Corpo di Cristo per dare testimonianza» (MR 20). Le funzioni, le attività sono a servizio della testimonianza del Corpo di Cristo.

13. Quando cediamo al funzionalismo diventiamo un’impresa. La mondanità spirituale, secondo De Lubac, è «il maggior pericolo, la tentazione più grave, quella che sempre rinasce – insidiosamente -quando tutte le altre sono state vinte e prende nuovo vigore proprio da queste vittorie». La definisce così: «Quello che praticamente si presenta come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale e anche spirituale sarebbe, anziché la gloria del Signore, l’uomo e la sua perfezione. La mondanità spirituale non è altro che un’attitudine radicalmente antropocentrica. Questa attitudine sarebbe imperdonabile nel caso di un uomo che fosse dotato di tutte le perfezioni spirituali, ma che non lo conducessero a Dio. Se questa mondanità spirituale invadesse la Chiesa e tentasse di corromperla attaccandola nel suo stesso principio, sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale».

14. Possiamo, così, continuare a riflettere sulla vita religiosa nella Chiesa con il metodo delle «tensioni bipolari» e la loro soluzione in un piano superiore che non sia sintesi e che non annulli la virtualità di ogni polo in tensione. Ma, per concludere, vorrei riferirmi a una quarta tensione, a mio parere fondamentale, ossia alla tensione che soggiace all’esperienza dell’inserimento.

15. Per meglio comprendere questo, conviene ricordare il luogo che occupa il trattato sulla vita religiosa nella Lumen gentium: tra il capitolo che tratta dell’universale vocazione alla santità e quello che si riferisce all’indole escatologica della Chiesa. L’ultimo paragrafo del cap. V conclude con un’avvertenza escatologica che introduce il tema della vita religiosa (LG 42). Dice, tenendo presente san Paolo: «Quelli che usano di questo mondo non si attacchino ad esso, perché passa la scena di questo mondo» (cf 1Cor 7,31). È il famoso approccio del «come-se» paolino. Non è una fuga mundi,ma si tratta di assumere le realtà terrene, collocandole in una relatività fondamentale, espressa in questo «come-se». Qui si apre una breccia rivolta verso una trascendenza che non è un trascendere verso l’esterno, ma verso l’interno, verso la dinamica stessa della vita. Si tratta di mettere il trascendente nel nucleo stesso della vita e dell’attività quotidiana della nostra consegna. Questa dimensione configura una «consegna che crea una speciale relazione con il servizio e la gloria di Dio» (LG 44). Lo stesso n. 44, spiegando questa speciale relazione, dice che la vita religiosa è:

– segno che può e deve attrarre efficacemente a compiere, senza venir meno, la propria vocazione cristiana;

– segno che il popolo di Dio non ha cittadinanza permanente in questo mondo;

– segno che manifesta meglio a tutti i credenti i beni celesti;

– segno che offre una testimonianza della vita nuova ed eterna ottenuta dalla risurrezione di Cristo;

– segno che preannuncia la risurrezione futura e la gloria del regno celeste. In una parola: questo segno inserisce l’escatologia nella vita.

16. Seguendo questo messaggio, la vita consacrata non può prescindere dalla dimensione di inserimento. Concepirla senza di essa è snaturarla, è tendere a riduzionismi della tensione fondante. Qui la tensione si stabilisce tra la vita attuale e la dimensione escatologica, tra il servizio apostolico concreto e il messaggio escatologico. Ogni vita consacrata deve essere inserita nell’ambito in cui lavora apostolicamente. Essere religioso non significa «risparmiarsi» per la vita eterna… ma è addentrarsi, come il Verbo di Dio, nella quotidianità del lavoro, mostrando il volto del Padre che attende, del Figlio che rifà tutte le cose, dello Spirito che anima. Inserirsi vuol dire portare l’esempio del limite dell’Incarnazione del Verbo fino all’ambito più intensamente drammatico. Ci si può interrogare, a questo punto, sul fatto, l’ampiezza e la qualità dell’inserimento della vita religiosa nella missione che la Chiesa le affida attraverso la Gerarchia, seguendo i carismi di fondazione. Non è necessario forzare molto l’immaginazione per vedere le «decadenze» emerse negli Istituti religiosi per un’errata soluzione di questa tensione bipolare: il lavoro quotidiano e la trascendenza escatologica che deve essere «inserita» nel nucleo stesso della vita.

17. Per concludere, un riferimento a come queste realtà sono state tenute presenti nella legislazione della Chiesa. Il nuovo Codice ha assunto questi aspetti trattando della vita consacrata. Ha cercato un’espressione adeguata di questo dono dello Spirito alla Chiesa. Ha esplicitato il riconoscimento e la protezione dello spirito proprio di ogni Istituto, lasciando nel diritto comune uno spazio vasto per il diritto particolare. Garantisce la flessibilità della nuova legislazione, specialmente nelle norme disciplinari, dovuto al principio di sussidiarietà. Fa propri i principi promulgati dal Concilio Vaticano II. Questi quattro aspetti o principi di legislazione convergono in un unico fondamento della nuova codificazione, per il quale si riconosce la natura propria, l’indole, il fine e la missione di ogni Istituto, secondo l’intenzione del Fondatore e i doni a lui concessi per il bene di tutta la Chiesa. La Chiesa Madre continua il suo cammino spiegando la sua pluridimensionale ricchezza attorno a Gesù Cristo, l’unico convocatore legittimo, l’Autore e il Perfezionatore della fede. Noi, nella nostra vita e nella nostra riflessione seguiamo questi passi per ottenere che si manifesti sempre più e sempre meglio questo «dono dello Spirito alla Chiesa».

Jorge Mario Bergoglio*

(tratto da Vita consacrata, n. 50, 2014/1)

* Jorge Mario Bergoglio, Obispo Auxiliar de Buenos Aires. Sinodo “La vita consagrada y su misión en la Iglesia y en el mundo”, Roma, 1994, in «Vida Religiosa», vol. 115, n. 7, Julio-Septiembre 2013.

Note

1) Lineamenti Sinodo 1994, n. 42.

2) Lettera apostolica Icammini del Vangelo, 1990, n. 24.

3) Relazione finale, II, C, 2.

4) Cf Lumen gentium, n. 12.

SACERDOS IN AETERNUM!

cons tre

E’ il grande giorno, il giorno della consacrazione sacerdotale di tre frati minori della Provincia Toscana: oggi, Sabato 27 giugno alle ore 17.00, nella chiesa di Santa Caterina di Alessandria a Pisa, fra Alessandro, fra Gabriele Maria e fra Mario diventeranno sacerdoti! Cosa aggiungere? nulla! Ma c’è da fare tre cose PREGARE per ognuno dei tre e per tutti e tre, CHIEDERE al SIGNORE di fare scendere tantissima GRAZIA perchè dovranno distribuirla a tantissime persone e ACCOMPAGNARLI ogni giorno del loro ministero sacerdotale!

A loro una preghiera di Don Tonino Bello per i sacerdoti:

«Io ti auguro
di non stare mai in testa
e neppure in coda
ma che tu possa stare sempre in mezzo
al popolo, come Gesù.
“Gesù, allora si sedette in mezzo ai dottori,
aprì la bocca e disse….».
Si sedette in mezzo;
Gesù che si siede in mezzo.
Anche per te: siediti in mezzo alla gente,
senti il sapore e il profumo del popolo,
inebriati di questo grande ideale
di annunciare Gesù Cristo.
È splendido: dà significato alla tua vita».
(Cf Tonino Bello, Ai sacerdoti).

cons ador

Era il 1875 e sul soglio pontificio regnava Pio IX.
La diocesi di Bergamo, retta da mons. Pier Luigi Speranza, si reca in pellegrinaggio a Roma nell’inverno 1875. Tra i numerosi presbiteri, anche il sacerdote novello don Francesco Spinelli, ordinato da poco, il 17 ottobre 1875.

Nella visita alle quattro basiliche della città eterna non manca quella dedicata alla Madre di Dio. Egli sosta dinanzi alle reliquie della culla di Betlemme, custodite nella basilica romana di Santa Maria Maggiore. Proprio di quella culla, simbolo del mirabile Mistero dell’Incarna-zione del Figlio di Dio, don Francesco ricorda: “Mi sono inginocchiato innanzi ad essa, piansi, pregai e, giovane allora, sognai uno stuolo di vergini che avrebbero adorato Gesù in Sacramento”.

È l’intuizione di fondare un Istituto dedito all’adorazione e alla carità; sogno che si avvera il 15 dicembre 1882 a Bergamo con la prima adorazione che segna la nascita delle Suore Adoratrici del SS. Sacramento.

Alla capanna di Betlemme si partecipa alla “manifestazione dei misteri più sublimi e salutari”, quelli dell’incarnazione, della redenzione  e della presenza sacramentale di Gesù tra i suoi.

Le Adoratrici trovano il loro atto di nascita, proprio davanti al mistero dell’incarnazione ricordato dalle reliquie della culla di Betlemme nella chiesa di S. Maria Maggiore in Roma.

Nel mistero dell’incarnazione don Francesco vede la sintesi del mistero d’amore “di Dio che così volle nascere perché volle essere amato”; vi coglie il mistero del dono della vita divina e ne rimane affascinato, al punto da dar vita ad un Istituto che pone al centro della sua spiritualità la contemplazione del mistero dell’Amore di Dio, iniziato nell’incarnazione e continuato nell’Eucaristia.

Il Gesù di Betlemme è già il Gesù del Calvario ed è lo stesso che sull’altare del mondo ripresenta continuamente il suo sì al padre per la salvezza del mondo.

Mediante l’Adorazione il nostro essere è proiettato nella contemplazione del Mistero della Redenzione, che nell’Eucaristia ha il suo “fonte e culmine”. Nella celebrazione ed adorazione eucaristica all’uomo è offerta la possibilità di innalzare il suo sacrificio di lode al Padre tramite il Figlio nello Spirito.

IL FONDATORE

Il Beato Francesco Spinelli nasce a Milano, il 14 aprile 1853, da genitori di origine bergamasca.

È ordinato sacerdote il 17 ottobre 1875 e il 15 dicembre 1882, fonda, insieme a Caterina Comensoli, l’Istituto delle Suore Adoratrici, a Bergamo.

Preso infatti dalla passione per Dio e per gli uomini, egli dà vita ad un istituto, il cui scopo è “attingere l’amore più ardente dall’Eucaristia celebrata e adorata per riversarlo sui più poveri fra i fratelli”. Egli per primo spende la sua vita in ginocchio davanti all’ostensorio e davanti ai fratelli, in cui vede la presenza di Gesù da amare e da servire con amore e compassione incondizionata.

Il 4 marzo 1889, causa un dissesto finanziario, in cui involontariamente è coinvolto, viene licenziato dalla Diocesi di Bergamo e accolto nel clero di Cremona dal grande cuore di Mons. Geremia Bonomelli e a Rivolta d’Adda continua l’Istituto delle Suore Adoratrici.

Lungo la sua vita, costellata di grandi prove, vive e insegna l’arte del perdono più smisurato, perché di fronte al nemico si può applicare solo “la vendetta di un infinito amore”.

Muore il 6 febbraio 1913 a Rivolta d’Adda (CR).

Notizie prese dal sito: http://www.suoreadoratrici.it/default.asp e da FB: Suore Adoratrici Sass (https://www.facebook.com/suore.adoratrici?fref=ts)

«Un uomo di Dio che sapeva vedere oltre»

Per chi ne aveva “fame”, ecco un audio/video di una lectio tenuta da Padre Silvano Fausti: la lectio divina del Vangelo di oggi, Lectio Divina del Vangelo secondo san Matteo 7,21-29

http://www.youtube.com/watch?v=BptBDwKqmKc

fausti

Raccolse l’eredità di madre Teresa

cons nirmala

Suor Nirmala Joshi, dal 1997 al 2009 superiora della Congregazione delle Missionarie della Carità fondato da Madre Teresa di Calcutta, è morta oggi a Kolkata (West Bengala indiano) all’età di 81 anni a causa di una salute in deterioramento e di complicazioni cardiache.

Da oltre cinque anni ritirata in un convento della città dopo aver passato il testimone all’attuale superiora, la tedesca Mary Prema Pierick, suor Nirmala era salita ai vertici dell’Ordine per volere della stessa Madre Teresa che l’aveva formata portandola con sé in viaggio attorno al mondo.

Per rispetto della fondatrice, aveva chiesto a tutti di non chiamarla ‘madre’, ma semplicemente ‘suora’. A chi le domandava quale fosse il suo ruolo, la superiora rispondeva: null’altro che una “Missionaria della Carità”.

 Il mondo ha conosciuto suor Nirmala per un piccolo gesto di tenerezza durante il funerale di madre Teresa a Calcutta, quando le carezzò il viso per l’ultima volta e poi congiunse le proprie mani nel segno della preghiera. Il mondo l’ha conosciuta quando l’ha vista camminare, da sola, qualche metro dietro il corpo della «sua» Teresa, lungo le strade di Calcutta piene di donne e uomini, non cristiani, accorsi per dire grazie a chi per loro era stata una madre.

Suor Mary Nirmala Joshi ― morta a Calcutta il 23 giugno, a ottantuno anni ― è stata per dodici anni, dal 13 marzo 1997 al 25 marzo 2009, la superiora generale delle Missionarie della Carità, la congregazione fondata nel 1950 da madre Teresa. «Se Dio ha potuto trovare qualcuno piccolo come me, allora vuol dire che può trovare qualcuno ancora più piccolo» disse madre Teresa a chi le chiedeva chi fosse suor Nirmala, il cui nome nella lingua del Bengala significa «purezza». Nel capitolo generale le suore non tennero conto che la nuova superiora aveva contratto una forma inguaribile di malaria endemica e che avrebbe sempre sofferto di febbri altissime. Proprio la malattia, ebbe a confidare Nirmala, «era la risposta al pensiero dominante con le sue esagerate esigenze di presunte perfezioni».

Non voleva essere chiamata «madre», come le sarebbe spettato. E te lo spiegava così: «Riconosco solo tre madri: la Vergine Maria, la mia mamma naturale e Teresa». Con lei, poi, era impossibile imbattersi in ragionamenti lunghi e complicati: era di poche, essenziali, parole. Di più, sembrava quasi che le parole non le fossero necessarie e così le usava bruscamente, come se fosse costretta. Ma la sua era sempre una voce freschissima, da ragazzina. Questo suo stile scabro non aveva però nulla a che fare con la paura. Lo si vide bene alla vigilia del funerale di madre Teresa, quando un’«orda» di giornalisti invase la casa madre della congregazione per strapparle una dichiarazione sulle entrate economiche e sulle posizioni riguardo ad aborto e contraccezione. Nirmala non si scompose e rispose con fermezza, spiazzando l’arroganza dei suoi interlocutori: «Continueremo a servire Gesù nei poveri e ad adorarLo nell’Eucaristia, niente cambierà. Madre Teresa continuerà a pregare per noi, a essere con noi. L’aborto resta un omicidio ed è contro Dio». E si congedò consegnando a ogni giornalista una medaglietta della Madonna con l’invito schietto, semplice, materno: «Pregate».

Quando la costringevi a parlare di sé, teneva tra le dita una piccola matita consumata: quasi ci giocava per vincere la timidezza. In un’epoca di «realtà virtuali», quella matita assurgeva quasi a simbolo della concretissima «rete» di carità accesa da madre Teresa. Già al primo incontro era come se la conoscessi da sempre: sorella, mamma «sempre accanto anche a mille chilometri di distanza!». Ti guardava negli occhi e ti stringeva le mani, come se al mondo ci fossi soltanto tu. Ti «riconosceva», anche se non ti aveva mai visto prima. Andava sempre dritta all’essenziale e quando ti assicurava che saresti rimasto nelle sue preghiere, eri certo che sarebbe stato così. Per sempre. Tanto che volle visitare la redazione dell’«Osservatore Romano», il 7 maggio 1998, espressamente «per conoscere le donne e gli uomini che facevano il giornale del Papa così da poter pregare ancora meglio e ancor di più per loro». Era il suo modo di essere. Come ebbe a confermare frère Roger di Taizé: quando fu lui a venire in redazione, un anno dopo, informato della visita di suor Nirmala, confidò che avrebbe voluto «avere la capacità di pregare di quella piccola donna che Gesù ha chiamato da lontano, da una famiglia neppure cristiana».

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Silvia Carcangiu racconta com’è nata la sua vocazione alla vita consacrata nel Regnum Christi e i primi passi della sua formazione.

Silvia Carcangiu, 23 anni, di Marostica (VI), lo scorso 8 settembre ha consacrato la propria vita nel terzo grado del Movimento Regnum Christi. Ha studiato ragioneria, e ha frequentato il primo anno di Scienze dell’educazione all’Università di Verona.

Attualmente vive a Madrid, svolge il suo apostolato in parrocchia ed è al suo secondo anno di formazione: Sacra Scrittura, Catechismo della Chiesa Cattolica, la vita consacrata e la vita spirituale sono tra le materie di studio che contribuiscono a una formazione integrale che tocca tutti gli ambiti della persona: spirituale, umana, intellettuale. Seguiranno gli studi filosofici e teologici.

Silvia, come hai conosciuto il Movimento Regnum Christi?

Due anni e mezzo fa (nel 2009) ho partecipato ad un pellegrinaggio a Medjugorje e ci accompagnava un Legionario di Cristo che vive a Padova, P. Alberto Zanetti. Sono tornata a casa chiedendomi quale fosse la mia vocazione e quale fosse la missione che Dio mi aveva affidato. Fino ad allora non mi ero mai fatta questo tipo di domande. Ero una ragazza come molte altre, con una vita “normale”: amici, università, un bravo ragazzo al mio fianco, il lavoro, una famiglia stupenda, i miei sogni, i miei progetti, i miei studi.

Esternamente tutto era perfetto, ma spesso la sera, prima di addormentarmi, quando mi ritrovavo sola con me stessa sentivo che mi mancava qualcosa, ero sempre insoddisfatta. Umanamente avevo tutto, ma non riuscivo a trovare un vero senso alla mia vita: chi sono? Dove vado? Proprio un anno prima di quel pellegrinaggio speciale avevo sperimentato l’amore di Cristo con la mia conversione: avevo iniziato a vivere con

Come hai individuato nella consacrazione al terzo grado, la “tua strada”?

la vera gioia di essere cristiana, incontrando Cristo nell’Eucaristia, nella confessione, nelle relazioni umane. Avevo scoperto davvero un “Dio amico” che non mi avrebbe più lasciata. Durante quel viaggio ho sentito che Dio mi chiedeva di più ed io volevo solo rispondere al Suo amore dicendo sì alla Sua volontà, perché quando si incrocia lo sguardo di Cristo non si può più tornare indietro.

Ho iniziato il mio discernimento vocazionale, aiutata da P. Alberto e dalle consacrate del Regnum Christi. Durante il primo anno sono rimasta a casa, lavorando e condividendo momenti di vita di comunità con le consacrate di Milano e di Roma. A giugno dell’anno scorso sono partita per Madrid e ho partecipato a un corso di discernimento vocazionale, che è durato tutta l’estate, e ho poi deciso di prolungare questo periodo per un anno intero. Il discernimento è stato per me un processo, un passo dopo l’altro, per capire che Dio mi stava chiedendo di seguirlo in modo più intimo e per capire che qui, nella famiglia del Regnum Christi, è dove Dio mi ha sempre voluto e dove mi sento a casa.

Come hai comunicato questa scelta alla tua famiglia?

Una delle cose più importanti del discernimento sono i tempi: c’è un tempo in cui Dio parla con chiarezza, quando l’anima è pronta, e c’è anche un tempo in cui i genitori sono pronti ad accettare la scelta dei figli e la volontà del Signore. Anche questo è avvenuto poco a poco, durante l’anno raccontavo loro come mi sentivo bene, restando sempre aperta alla volontà di Dio per capire davvero qual era la mia vocazione; loro sono stati i primi a notare la serenità e la pace che avevo nel cuore e che trasmettevo. Quando ho comunicato la mia scelta di vita mi hanno dimostrato la loro apertura, dicendomi che, se questa era la mia volontà, l’avrebbero rispettata, perché non c’è gioia più grande per un genitore di vedere i figli felici e realizzati, senza nascondere la sofferenza che sentono non avendomi più a casa con loro.

Silvia, grazie, un’ultima domanda: come si può raccontare la propria vocazione? Come si può spiegare un intervento di Dio così forte, un’indicazione così chiara nel mondo confuso, per certi versi, e ricco di stimoli in cui viviamo?

Quando mi chiedono “che cosa ho sentito” o “come l’ho capito”, rispondo sempre con una parola: pace. Dio fa capire la Sua volontà donandoci la pace nell’anima, ma per ascoltare la Sua voce abbiamo bisogno di fare silenzio in fondo al cuore e dire sì alla strada che Lui vuole farci percorrere, qualunque sia, con la certezza che Lui sa che cosa è meglio per noi. In questo ci può aiutare Maria: anche se non sapeva bene dove Dio la stesse portando ha detto sì, perché si fidava totalmente di Lui. Sono sicura che è proprio quando diciamo sì a Cristo e alla sua volontà che Lui può agire, ma ha bisogno della nostra collaborazione, perché senza il nostro sì non può compiere quella missione che ha affidato proprio a noi. È difficile spiegarlo a parole, è vero; è stato difficile anche per i primi apostoli, perché è un mistero d’amore; non abbiamo meriti o doni speciali, solo la libertà di rispondere all’iniziativa di Dio che sceglie e chiama alcuni, quelli che Lui vuole, a seguirlo in modo intimo e personale.

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Cari sorelle e fratelli e sorelle, cara famiglia salesiana,

in questo mio pellegrinaggio dedicato alla venerazione di Gesù crocifisso nel segno della santa Sindone, ho scelto di venire in questo luogo che rappresenta il cuore della vita e dell’opera di san Giovanni Bosco, per celebrare con voi il secondo centenario della sua nascita. Con voi ringrazio il Signore per avere donato alla sua Chiesa questo Santo, che assieme a tanti altri Santi e Sante di questa regione, costituiscono un onore e una benedizione per la Chiesa e la società di Torino e del Piemonte, dell’Italia e del mondo intero, in particolare a motivo della cura avuta verso i giovani poveri ed emarginati. Non si può parlare oggi di Don Bosco senza vederlo circondato da tante persone: la Famiglia salesiana da lui fondata, gli educatori che a lui si ispirano, e naturalmente tanti giovani, ragazzi e ragazze, di tutte le parti della terra che acclamano Don Bosco quale “padre e maestro”. Di Don Bosco si può dire tanto! Ma oggi vorrei rimarcare solo tre lineamenti: la fiducia nella divina Provvidenza; la vocazione a essere prete dei giovani specialmente i più poveri; il servizio leale e operoso alla Chiesa, segnatamente alla persona del Successore di Pietro.

Don Bosco ha svolto la sua missione sacerdotale fino all’ultimo respiro, sostenuto da una incrollabile fiducia in Dio e nel suo amore, per questo ha fatto grandi cose. Questo rapporto di fiducia con il Signore è anche la sostanza della vita consacrata, affinché il servizio al Vangelo e ai fratelli non sia un rimanere prigionieri delle nostre visuali, delle realtà di questo mondo che passano, ma un continuo superare noi stessi, ancorandoci alle realtà eterne e inabissandoci nel Signore, nostra forza e nostra speranza. E questa sarà anche la nostra fecondità. Possiamo oggi interrogarci su questa fecondità, e – mi permetto di dire – sulla tanto “brava” fecondità salesiana. Ne siamo all’altezza?

L’altro aspetto importante della vita di Don Bosco è il servizio ai giovani. Lo realizzò con fermezza e costanza, fra ostacoli e fatiche, con la sensibilità di un cuore generoso. «Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad impresa che non avesse di mira la salvezza della gioventù… Realmente non ebbe a cuore altro che le anime» (Costituzioni Salesiane, n. 21). Il carisma di Don Bosco ci porta ad essere educatori dei giovani attuando quella pedagogia della fede che si riassume così: «evangelizzare educando ed educare evangelizzando» (Direttorio Generale per la Catechesi, 147). Evangelizzare i giovani, educare a tempo pieno i giovani, a partire dai più fragili e abbandonati, proponendo uno stile educativo fatto di ragione, religione e amorevolezza, universalmente apprezzato come “sistema preventivo”. Quella mitezza tanto forte di Don Bosco, che certamente aveva imparato da mamma Margherita. Mitezza e tenerezza forte! Vi incoraggio a proseguire con generosità e fiducia le molteplici attività in favore delle nuove generazioni: oratori, centri giovanili, istituti professionali, scuole e collegi. Ma senza dimenticare quelli che Don Bosco chiamava i “ragazzi di strada”: questi hanno tanto bisogno di speranza, di essere formati alla gioia della vita cristiana.

Don Bosco è sempre stato docile e fedele alla Chiesa e al Papa, seguendone i suggerimenti e le indicazioni pastorali. Oggi la Chiesa si rivolge a voi, figli e figlie spirituali di questo grande Santo, e in modo concreto vi invita ad uscire, ad andare sempre di nuovo per trovare i ragazzi e i giovani là dove vivono: nelle periferie delle metropoli, nelle aree di pericolo fisico e morale, nei contesti sociali dove mancano tante cose materiali, ma soprattutto manca l’amore, la comprensione, la tenerezza, la speranza. Andare verso di loro con la traboccante paternità di Don Bosco. L’oratorio di Don Bosco è nato dall’incontro con i ragazzi di strada e per un certo tempo è stato itinerante tra i quartieri di Torino. Possiate annunciare a tutti la misericordia di Gesù, facendo “oratorio” in ogni luogo, specie i più impervi; portando nel cuore lo stile oratoriano di Don Bosco e mirando a orizzonti apostolici sempre più larghi. Dalla solida radice che egli ha posto duecento anni fa nel terreno della Chiesa e della società sono spuntati tanti rami: trenta istituzioni religiose ne vivono il carisma per condividere la missione di portare il Vangelo fino ai confini delle periferie. Il Signore ha poi benedetto questo servizio suscitando tra voi, lungo questi due secoli, una larga schiera di persone che la Chiesa ha proclamato santi e beati. Vi incoraggio a proseguire su questa strada, imitando la fede di quanti vi hanno preceduto.

In questa Basilica, così cara a voi e a tutto il popolo di Dio, invochiamo Maria Ausiliatrice perché benedica ogni membro della Famiglia Salesiana; benedica i genitori e gli educatori che spendono la loro vita per la crescita dei giovani; benedica ogni giovane che si trova nelle opere di Don Bosco, specie quelle dedicate ai più poveri, affinché, grazie alla gioventù bene accolta e educata, sia data alla Chiesa e al mondo la gioia di una nuova umanità.

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Ecco la testimonianza di Aldo, Fulvio e Claudio Festa. Tre fratelli che, nello stesso tempo, hanno scoperto la chiamata a seguire più da vicino il Signore sui passi di san Francesco.

Parlare di se stessi è sempre molto difficile, se poi questo va diviso in tre la difficoltà si triplica:

– Chi dei tre scrive?…

– Il contenuto di chi scrive, piacerà agli altri due?…

– Ciò che è scritto, servirà a qualcosa?…

Troppe domande, e si rischia di preparare il terreno ideale alla “dolce tentazione” del non fare mai niente!… Tralascio, quindi, dubbi e perplessità e mi “immergo” risolutamente in questo scritto-testimonianza nella santa speranza di glorificare Dio anche così!

Subito mi nasce impellente una domanda: “da dove comincio?”. Credendo di essere originale, mi dico: “comincio dalla fine”… e mi compiaccio della trovata, ma un attimo dopo mi chiedo in che modo potrò arrivare al principio della storia se comincio dalla fine?… Boh, ci provo!

Se si guarda a ritroso la propria storia che, nel mio caso, è strettamente legata a quella dei miei due fratelli, – Claudio e Fulvio – si ha quasi sempre l’impressione che la vita appaia in una sua “logica illogicità”… che scorra, cioè, così come deve scorrere malgrado te, malgrado gli altri, malgrado le cose,… quasi che il soggetto sia vittima passiva di un gioco sottile e impenetrabile, sfuggevole a ogni logica comprensione a vantaggio di un Dio inesistente che per di più si chiama “caso”.

Ma se questa panoramica a ritroso della propria vita non si svuota di questo Dio inesistente, la sintesi migliore che se ne potrebbe trarre è che ogni uomo sia irresponsabile e incolpevole di fronte a se stesso, agli altri e al mondo… come se fosse privo di ogni volontà! Ed è “la sintesi peggiore”!

Chi, al contrario, ha la grazia di fare continuamente esperienza di Dio, quello vero, non può certamente cadere in questo grossolano errore di valutazione ed è chiaro che, inevitabilmente, sia portato a contrastare il credo dei non-credenti e di quelli che del “caso” ne fanno il proprio dio… Non è a caso, infatti, che Claudio e Fulvio siano diventati sacerdoti… come non è a caso che io, oggi, mi trovi alla Porziuncola a svolgere il servizio di accoglienza dei pellegrini in Basilica…

voglio dire, insomma, che è il Dio dell’alleanza che da sempre manovra i fili della storia e il caso non c’entra proprio per niente…

Forse, su questo punto, i discendenti di Darwin si agiteranno un po’ e già ne avverto lo sguardo sbieco… ma poco importa!

Dopo venti anni l’abito francescano continua a “vestirci di marrone” e credo di non esagerare se affermo che forse mai abbiamo avvertito un senso di disagio o di stanchezza nell’indossarlo, a riprova del fatto che forse il Signore non si sia affatto sbagliato a chiamarci a questa vita… “di consacrazione”, s’intende. La fatica, semmai, sta nell’essere coerenti sempre con quello che tale chiamata comporta… ma questo è un altro discorso.

Essendomi, comunque, imposto di partire dalla fine, ritorno, chiaramente, al giorno della ordinazione diaconale dei miei due fratelli, la cui celebrazione si è svolta nella nostra parrocchia di origine, a Milano.

Potrei intitolare quel giorno “la festa dei Festa”; …c’erano tutti… anche quelli che non avrei mai pensato che ci fossero e mentre li guardavo pensavo che Dio non smette mai di stupire…ed ero contento… ed ero felice!

Coglievo dallo sguardo di tutti, però, una domanda in sé lecita che però nessuno osava fare ma la cui formulazione mi era ben chiara e precisa e a caratteri ben grandi come si addice alla mia poca vista: “Perchè loro due si e tu no?”. Una domanda scortese? No, non credo proprio… giusta, direi… e l’avrei accolta serenamente e benevolmente con qualche risposta da dare senza però tralasciare la migliore: “Dio ha pensato per me ciò che per me è il meglio… restare frate laico” e anche di questo sono contento.

Al canto litanico dei santi, nel momento della prostrazione, faceva seguito nella mia mente un altro canto anch’esso litanico, quello dei ricordi… sempre uguali, sempre quelli, ma sempre veri! Guardavo loro due prostrati e stentavo a credere che fossero gli stessi miei fratelli coi quali avevo, in un certo senso, convissuto la stessa storia. Come in un film, quei ricordi mi passavano velocemente nella mente simili a fotogrammi irripetibili  ora velati, ora chiari, ora vivi.

È incredibile come spesso il passato si faccia presente in modo sorprendente e mirabile e così palpabile da avere quasi la sensazione che ciò che è stato continua ad essere e ad esistere ancora oggi! Intendo dire, cioè, con la stessa energia ed emozione coi quali quei fatti furono vissuti e non solo, ma anche  con la stessa ansia e la stessa angoscia, la stessa gioia e la stessa speranza, gli stessi odori e gli stessi profumi! Senza rimpianti, ovviamente, perché il presente sempre si avvale del passato per ricavarne il frutto migliore: l’esperienza!

Questa è la forza della memoria quando sa farsi discepola della Verità e il risultato che ne consegue non può essere che uno solo: diventare adulti.

Ora la stola diaconale sigilla la nuova dignità dei miei due fratelli all’interno della chiesa dove anch’io, diacono senza stola, ma uguale nel servizio, mi avvio a continuare con essi una storia mai finita, ancora in tre, insieme, ma in modo nuovo, diverso e con tante altre cose ancora da dire. Ma ritornando al “già detto e fatto” vedo come il film dei ricordi, presenti tre ragazzi ancora giovani e inesperti immersi nel duro mondo del lavoro milanese fra fabbriche e fumi industriali.

Un’infanzia spesso difficile segnata dal cambiamento di cultura e di ambientazione che sempre sta fra il nord e il sud. Dall’ombra del Vesuvio alla “montagnetta di San Siro” il passagio è radicale, forte e si fa sentire a tutti i livelli e in tutti gli ambiti sociali: scuola, mentalità, lavoro, cultura, economia ….

Si aggiunga a questo, poi, la fatica di tutti i giorni dove le cose da fare erano davvero molte ma la più urgente rientrava nei canoni tipici delle famiglie numerose del sud (undici persone la nostra): “salvare la disastrosa situazione economica familiare…e non era cosa da poco!

E la fede?… La religione?… La Chiesa?… Dov’era tutto questo?

Roba dell’altro mondo, nel senso che veramente sembrava appartenere a un altro mondo e non in quello reale… qui, neanche a parlarne… Ci sembrava “roba” per chi non avesse grossi problemi da risolvere per chi, insomma, poteva, in qualche modo, permetterselo. Non c’era tempo per questo! Nessuno ci aveva mai insegnato o detto o forse si, non ne sono sicuro, o non l’avevamo mai capito, che Dio e soprattutto Dio fa parte della nostra stessa sopravvivenza. Lo scoprimmo tardi, molto tardi, ma non tardi abbastanza per non poterlo amare.

Lo scoprimmo ad età ormai adulta, io a trentacinque anni e loro due, anno più anno meno, siamo lì… Lo scoprimmo dopo aver fatto e vissuto esperienze molto dure e sofferte e sulle quali non mi soffermo per ragioni diverse…. soprattutto perché ciò richiederebbe tempo e “spazio”! Più volte, però, ne abbiamo parlato e lo abbiamo testimoniato e già molti conoscono la nostra storia.

Poi le cose, man mano, si aggiustarono… tutte… una ad una… soprattutto economicamente e quando sembrava che potessimo finalmente crogiolarci ai raggi di un sole conquistato ecco che, improvvisamente Lui, il Signore della storia, veniva a sconvolgere di nuovo tutte le cose… Come?… In che modo?… Un’esperienza con Dio è sempre un’esperienza personalissima e perciò difficilissima da raccontare e quindi non la racconto! Mi dispiace per i più curiosi…

Posso solo dire, senza fare della retorica o entrare nel sentimentalismo, che quell’esperienza fu davvero un incontro d’amore e ne ricordo il giorno, la data, l’ora. Non si può dimenticare un incontro da cui doveva germogliare un fiore inatteso: la pace, la pace del cuore…

Così fu e così è… ancora!

Se all’amore si risponde con l’amore era inevitabile che, prima o poi, dovesse avvenire un altro incontro…e avvenne; quello con san Francesco d’Assisi… e da allora, il saio francescano doveva coprire una moltitudine di peccati… e ancora li copre… ahimè!

Poi il seguito; il probandato, il noviziato, gli studi teologici, la professione solenne, il diaconato… tutto come una scommessa… ma tutto per grazia di Dio! Un’avventura senza fiato, ma con tanta pace nel cuore e tanta serenità. Concludo questo breve ricordo, molto sintetizzato, della nostra storia guardando, stupito, l’intrigo di rampicanti e rovi che ci siamo lasciati alle spalle e, sempre stupito, contemplo ora la ridente radura che ci è davanti!

E la fede, vissuta nella Chiesa, che un tempo consideravo “roba dell’altro mondo”, ora è qui, nell’ampio spazio che mi circonda. E sono contento così.