Oggi ho scelto di raccontare la storia della mia amica Elena, suor Elena Massimi FMA, una matta, una folle, una donna che si è innamorata di Dio e che in questo amore folle si è resa conto che in tutto quello che aveva non c’era pienezza…O Dio o Dio…
Archivio per luglio, 2015
ANNO DELLA VITA CONSACRATA: SUOR ELENA…E LA SUA SETE DI PIENEZZA
Pubblicato: 18 luglio 2015 in Uncategorized“FIGLI DELLA DONNA VESTITA DI SOLE”
Noi Consacrati del GAM «ringraziamo con gioia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Col 1,3) per il dono della nostra vocazione e per il dono di appartenere alla “Comunità Consacrati del G.A.M.”, sorta per un disegno di amore del Padre affidato a Maria in seno al Movimento G.A.M. (Gioventù Ardente Mariana), di cui Don Carlo De Ambrogio ne è l’Iniziatore e il Primo Animatore. È per noi motivo continuo di gioia appartenere al Padre per mezzo di Gesù nello Spirito e attraverso il Cuore Immacolato di Maria.
Già dal 1977 Don Carlo De Ambrogio e Don Bruno Busulini furono accolti dal Card. Corrado Ursi Arcivescovo di Napoli come i primi Sacerdoti G.A.M.. A questo primo nucleo, nel 1979, anno della partenza per il cielo del nostro amato Fondatore, si sono aggiunti alcuni giovani G.A.M., accolti da Don Carlo stesso, iniziando il cammino formativo e vivendo insieme in Comunità-Cenacolo per giungere alla totale consacrazione a Cristo nella Chiesa secondo il carisma proprio del G.A.M. Questi giovani, sotto la guida forte e amorevole di Don Bruno Busulini, immediato successore di Don Carlo e suo instancabile collaboratore, furono i primi Sacerdoti Consacrati G.A.M. nati nel Movimento. La Comunità Consacrati del G.A.M. è stata eretta canonicamente dal Card. Corrado Ursi il 15 agosto 1984 e successivamente riconosciuta come Associazione Pubblica di Fedeli nell’Arcidiocesi di Benevento con il decreto n. 99/2001 del 13 Maggio 2001 di S. E. Mons. Serafino Sprovieri. La storia della Comunità affonda qui le sue radici fino a giungere alla sua fisionomia attuale, fedele al Carisma del Fondatore e attenta, come invitava Don Carlo, ai segni di Dio e dei tempi.
La nostra Comunità è composta da Laici Consacrati e Sacerdoti Consacrati che fin dal loro nascere e man mano in modo sempre più evidente hanno assunto lo stile e la specificità della Vita Religiosa, vivendo in comunità, con Costituzioni e Regola proprie, facendo la professione dei santi voti e assumendo un abito religioso. Don Carlo non ha potuto lasciare indicazioni più precise circa il nostro abito di Consacrati, come invece aveva fatto per le Consacrate. Egli vedeva già nella fede i futuri Consacrati che la Mamma si stava preparando. Lei li avrebbe formati come Gesù li voleva:
– totalmente dediti al Regno di Dio (cf At 6,4);
– con un amore ardentissimo per Gesù Eucaristia, una forte passione per il suo Vangelo;
– umilissimi, piccoli bimbi abbandonati in tutto alla Mamma;
– docilissimi al Papa e alla Chiesa;
– itineranti nell’evangelizzazione e pronti a perdere tutto per Gesù e per il Regno di Dio nelle anime.
L’attuale scelta di dare una maggiore e più specifica visibilità esteriore e una più chiara identità e strutturazione interna si colloca in linea con le nostre origini e ne è una fedele espressione. Nella sostanza non cambia nulla. Nello specifico, dopo un lungo e impegnativo studio dei documenti, degli scritti e delle indicazioni di Don Carlo e di Don Bruno, abbiamo colto come segno della volontà di Dio e della Mamma Celeste, alla vigilia dell’anno della Vita Consacrata provvidenzialmente indetto da Papa Francesco, l’esigenza di:
– attuare le disposizioni previste da Costituzioni e Regola circa la vita interna della Comunità e relativamente alle varie tappe di formazione che conducono alla professione religiosa dei voti;
– arricchire l’abito religioso, che resta nero nella fedeltà all’abito di Don Carlo, di uno scapolare, che è la lunga fascia che scende dalle spalle ai piedi, di colore più chiaro;
– recuperare, accanto alla denominazione abbreviata “Consacrati del G.A.M.” – che esprime la totale consacrazione al Padre e la completa dedizione a servizio del Movimento – il nome di “Figli della Donna vestita di Sole”, comparso già nei primissimi documenti, per esprimere il nostro impegno per il trionfo del Cuore Immacolato di Maria e l’avvento del Regno di Dio, e la nostra totale appartenenza a Maria Immacolata ponendoci sotto la sua guida, protezione e proprietà.
Il nostro abito si arricchisce dello scapolare di colore più chiaro in onore di Maria. Il suo primo significato è quello di porsi sotto la protezione della Vergine Maria, Donna vestita di Sole, di cui ci professiamo figli fedeli con l’atto di totale e generosa Consacrazione a Lei.
Inoltre il colore grigio, che è il colore della lana grezza utilizzata per confezionare gli abiti religiosi nella maniera più semplice e povera fin dai primi secoli, manifesta alcune caratteristiche fondamentali del nostro carisma;
– è un richiamo all’umiltà della Mamma Celeste, che è per noi Guida, Modello e Maestra di virtù. Già Don Carlo spiegava come « il più piccolo nel Regno dei Cieli è colui che si sente polvere, ma che ha un amore travolgente, un amore immenso. È una polvere innamorata di Dio». Umili come la polvere, come Maria.
– simboleggia l’offerta di tutta la persona e la piena disponibilità alla volontà di Dio da parte del Consacrato G.A.M. che vuole lasciarsi consumare dal fuoco dell’amore, “incenerire dallo Spirito Santo”, come Maria che fu «piena di grazia» e «adombrata dalla potenza dell’Altissimo».
– rimanda al Mistero Pasquale di Cristo che con la sua morte e resurrezione ha ricapitolato tutto in sé e ha realizzato la pace fra cielo e terra. Questo mistero si celebra in modo particolare a partire dalla Domenica delle Palme, giorno in cui vengono benedetti i ramoscelli d’ulivo, simbolo di pace presente anche nell’immagine caratteristica della “Madonna del G.A.M.”. E alla pace si accosta il simbolo penitenziale della cenere, ricavata dai ramoscelli benedetti all’inizio della Settimana Santa. Il colore grigio simboleggia l’impegno del Consacrato G.A.M. a diventare cenere partecipando alla Passione di Cristo, morendo a se stesso e al peccato per collaborare pienamente con il piano d’amore del Padre, che vuole la salvezza di ogni uomo e la pace come dono messianico per il mondo intero. In questo impegno sentiamo particolarmente vicina la presenza di Maria, presente sotto la croce del Figlio Gesù.
La nostra società così secolarizzata, nella quale i segni del soprannaturale si sono tanto rarefatti, ha più che mai bisogno di “vedere” gli uomini del sacro, come scriveva il Beato Paolo VI ai religiosi: «Questo mondo, oggi più che mai, ha bisogno di vedere in voi uomini e donne, che hanno creduto alla parola del Signore, alla sua risurrezione ed alla vita eterna, fino al punto di impegnare la loro vita terrena per testimoniare la realtà di questo amore, che si offre a tutti gli uomini».
Nel Giorno in cui facciamo memoria della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, condividiamo un’esperienza vocazionale raccontata da una novizia carmelitana che si accinge a fare la Professione.
Nella solitudine profonda fuggii. Era notte, la notte del mio esistere senza senso: nuovi orizzonti si aprirono finalmente nell’aurora di un giorno di libertà. Il Signore era con me, ma io non lo sapevo, dentro di me stringevo la sua presenza e in lui l’universo intero. Quella voce lontana mi spingeva: “Alzati e va’… Ti aspetto là, dove costruirai te stessa. Non ti preoccupare, Io sono con te e non ti abbandonerò, perché il tuo nome mi è caro. Ti proteggerò, sai, e dovunque andrai, Io sarò con te”. E andai.
Il mare. Ricordo il sapore delle corse nelle notti d’estate con il mio cane, Dumba. Il silenzio di un buio familiare e delle acque che si accostavano mi accarezzava dentro. Il fragore del giorno si placava in quei momenti. E mi chiedevo che senso avesse la mia vita. Lavoro, amici, svaghi… e poi? Quell’angolo solitario che mi afferrava da quando ero piccina non si era riempito. Mi aspettava. E questa cosa mi intimoriva. Perché? Seduta sulla spiaggia con il cagnotto stanco sdraiato accanto a me ripensavo ai momenti in cui avevo ingoiato la solitudine come una spina che ti soffoca il respiro. Nessuno che comprendeva le tue parole, tutti che andavano per le loro strade, e io con qualcosa più grande di me che non riuscivo ad andare serenamente incontro alla vita. Quanto dolore! Unici compagni di giochi: Dio e i gatti. Sì, Dio giocava con me, lo sentivo accanto. Me lo vedevo, un babbo buono che mi teneva compagnia, buono come il mio babbo Mario che era lontano. I mesi della navigazione erano per me un’assenza insopportabile. Vivevo l’ansia della separazione da ciò che riempiva il cuore. Mi sentivo perduta perché non potevo attingere alla fonte della mia pace. Mamma lavorava. E io ero sola. Quanto parlava quella solitudine alla mia fame di accoglienza. Parlava di abbandono, di non considerazione, di mancanza vitale. Eppure quella solitudine scavava in me quelle esigenze insaziabili che mi hanno strappato al tran tran per portarmi al Carmelo. Non avrei mai immaginato di diventare novizia, tantomeno monaca. Il gusto del proibito era la mia passione. Avevo voglia di esperienze. Tutto doveva passare attraverso di me. Il sapore del consumare l’esistenza senza porsi troppi confini. Stavo buttando i miei anni tra le braccia del: tutto ciò che voglio, quando un pensiero concluse il mio correre. Non dormivo mai d’estate: le crepes uscivano dalle mie mani a migliaia tra le mille voci dei villeggianti nelle notti calde senza ore, gli scaffali del discount mi aspettavano durante il giorno. Un ritmo frenetico, e nei brevi spazi tra un lavoro e l’altro: gli amici, gli amori, le sfide. Dentro un senso di onnipotenza e di profonda umiliazione mi accompagnava. Ricordo che una sera per difendere un’amica afferrai il ragazzo che la stava offendendo con forza e lo buttai in mare. Quante volte penavo nel vedere le ingiustizie spicciole del quotidiano. Allora riandavo ai pomeriggi dell’adolescenza quando con il motorino me ne andavo in un angolo e bevevo il tramonto come risposta al dolore che attanagliava il mio cuore. Lacrime e domande scorrevano senza risposta. Il Signore non aveva posto nelle mie giornate, ce l’avevo con lui perché avevo ricevuto del male. Avevo provato anche a porre fine alla mia vita, ma il mio babbo mi aveva sempre salvato. L’ultima estate, non so perché, prima di andare al lavoro presi a entrare nella Chiesa vicina al discount e a parlare con quel Cristo appeso in fondo. Era diventato un appuntamento ormai, ogni mattina. Dopo anni, qualcosa tornava a tirarmi. Sei anni prima avevo pregato molto. Avevo 18 anni, quando mio padre ebbe un incidente stradale. Volevo a tutti i costi che si salvasse, e mi rivolsi a Dio. Non morì, ma il buco nel cervello lo lasciò come un bimbo di cinque anni. Per me fu come morire: era vivo, ma non era più il mio babbo. L’unica persona che veramente mi capiva, alla quale potevo dire tutto senza problemi, il mio unico vero amico, tutto il mio affetto. Non capivo perché mi era stato tolto. E se pregavo, d’altra parte litigavo con Lui per quello che aveva fatto. Dopo anni mi ritrovavo a cercarlo e a chiedergli di portarmi via. Che senso aveva vivere? Fu allora che dissi: Mi vado a fare suora. Ero di quelle che sfottevano i preti e le suore, ma anche quella che faceva il primo soccorso, che andava come volontaria al centro per tossicodipendenti o al circolo anziani. Misteri del sentire umano… Dove andare? Mi piaceva la missione, l’Africa era il mio sogno. Andare ad aiutare i bambini, la gente di quelle terre in miseria. Chiedi a un prete che mi conosceva, qualche indirizzo. Mi disse di andare dalle mercedarie o dalle clarisse. Andai con un mio amico, ma non mi piacque l’accoglienza che ricevetti. E tornai via, senza aver concluso nulla. Il Signore sapeva dove aspettarmi. Fu una signora cliente del discount dove lavoravo che mi indicò un posto dove andare: Cerreto, dalle monache Carmelitane . Lo cercai sulla cartina perché non avevo idea di dove fosse. E un pomeriggio andai. Un luogo semplice, senza pretese. Mi fecero accomodare in parlatorio e lì incontrai le suore. Mi piacquero. Erano normali, non mi sentivo a disagio. Chiesi: Voglio vedere come si fa a diventare suora. Tornai la settimana dopo. Non capivo cosa stava succedendo. So solo che mi licenziai dai posti di lavoro che avevo. E partii. Si apriva il capitolo più importante della mia vita, quello che sto vivendo ora. Mi piaceva quel silenzio, la preghiera, il poter leggere e pensare, lo stare insieme. Mi mancavano tanto però gli amici, il mare, il mio cane, il mio babbo. Non sapevo cosa fare. Appena decidevo in cuor mio di andar via, Qualcuno con forza mi diceva: “Rimani”. Anche la notte, mi svegliavo e quell’invito non mi lasciava: “Ma dove vai? Rimani”. Un solo pensiero mi attraversava la mente: Sarò degna di servirlo? E rimasi.
Attualmente sono una novizia. Dopo un anno e mezzo posso dire di aver intuito il perché sono qui. L’impegno nel lavorare alla propria trasformazione interiore che al Carmelo è pane quotidiano mi sta facendo scoprire la bellezza della mia vita umana. Gli scogli più aspri della mia storia mi stanno rivelando la predilezione di Dio che mi ha raggiunto attraverso la sofferenza rendendomi capace di andare oltre il vissuto. L’uscire da me stessa, una me stessa camuffata nell’immagine di ragazza ultramoderna trasgressiva e senza debolezze, mi sta donando il mio vero volto. E quando chiedo a Babbo: “Perché proprio io?” e Lui mi risponde: “Mi è piaciuto il tuo cuore”, capisco che la chiamata è un mistero come è un mistero la risposta. Quale parte ho avuto io? Forse quella di non aver chiuso mai i battenti alla speranza che ci fosse qualcosa di bello anche per me e di aver ascoltato passo passo quella voce profonda che mi indicava. Con te oggi dico grazie al Signore per avermi donato di partecipare al Suo dono di Amore.
ANNO DELLA VITA CONSACRATA: UNA TESTIMONIANZA DALLA CLAUSURA
Pubblicato: 15 luglio 2015 in UncategorizedANNO DELLA VITA CONSACRATA: S.Camillo de Lellis e i Religiosi dell’Ordine dei Ministri degli Infermi
Pubblicato: 14 luglio 2015 in UncategorizedNel giorno della Festa di San Camillo de Lellis scopriamo chi sono i Religiosi dell’ “Ordine dei Ministri degli Infermi”
Sulle orme di San Camillo
Nel 1586, la “compagnia di uomini da bene” ottenne l’approvazione dal Papa Sisto V e, nel 1591, il Papa Gregorio XIV diede lo status di Ordine, con il nome di “Ordine dei Ministri degli Infermi”, nome scelto dal Fondatore, per indicare che i suoi membri dovevano avere come modello Cristo, che disse: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita”.
Oggi i Ministri degli Infermi sono conosciuti in tutto il mondo come Camilliani. L’Ordine è costituito da sacerdoti e fratelli che, come religiosi, godono di uguali diritti e assumono gli stessi obblighi.
L’Ordine, come stabilisce la sua Costituzione, si dedica “prima di qualsiasi cosa alla pratica delle opere di misericordia verso gli infermi” e fa sì che “l’uomo sia messo al centro dell’attenzione del mondo della salute”.
I membri dell’Ordine emettono i voti di castità, povertà e obbedienza e consacrano la loro vita “al servizio dei poveri infermi, anche appestati, nelle loro necessità corporali e spirituali, pur se con rischio della propria vita, dovendo fare ciò per sincero amore a Dio“.
“Il nostro Istituto ha per scopo il servizio completo del malato nella globalità del suo essere“, disposto “ad assumere ogni servizio nel mondo della salute, per l’edificazione del regno di Dio e la promozione dell’uomo” (C 43).
Fedeli a questo impegno, centinaia di Camilliani morirono servendo gli ammalati infettati dalla peste.
Pesti ed epidemie
In Italia e in Francia, le pesti e le epidemie erano molto frequenti e meritavano speciale attenzione da parte di Camillo e del suo Ordine. Quando tutti fuggivano, i Ministri degli Infermi accorrevano ad accudire i malati, consapevoli del pericolo che correva la loro vita, ma altrettanto pronti a sacrificarla per amore dei fratelli infermi. Morirono a decine, ma Camillo era fiero dalla dimostrazione di carità da parte dei suoi figli: dove c’era la peste c’erano Camilliani.
Nel XVII secolo, i casi di peste in varie parti dell’Italia furono oltre una dozzina. Nel 1630, una peste devastò il nord ed il centro Italia. Oltre un centinaio di Camilliani si diedero all’assistenza degli appestati e 56 religiosi morirono mentre erano al loro totale e generoso servizio.
Negli anni 1656-57, un’altra peste in Italia portò alla morte 86 religiosi camilliani che accudivano gli appestati: tra le vittime ci furono anche tre superiori provinciali e il Superiore Generale.
Non fu soltanto in Italia che i Camilliani fecero fronte alla peste, ma anche in Spagna, Perù, Bolivia e in tante altre parti del mondo.
Oggi, la stessa attenzione viene rivolta ai malati di lebbra in Cina, Tailandia, Filippine, Africa, Brasile, ai malati di TBC, malattia che uccise milioni di persone nel mondo fin all’inizio dello XX secolo, ai pazienti affetti dall’ HIV/ AIDS.
Per i Camilliani, il tempo di peste e di epidemie era “tempo di festa”, cioè di dedizione incondizionata agli infermi. Finora l’Istituto si è sempre mantenuto fedele a questo ideale, anche se le epidemie non sono state così frequenti e neppure tanto devastanti come nel passato.
Fame, guerre, calamità
Ai tempi di Camillo, fame, guerre e calamità naturali attiravano l’attenzione dell’Ordine. Nel 1590, la città di Roma fu colpita da una grave carestia nella quale persero la vita oltre 60 mila persone. Camillo si fece in dieci per soccorrere gli affamati. Egli sfamava anche più di 400 persone al dì oltre a indebitarsi comperando vestiti per coloro che morivano di freddo.
Su richiesta del Papa, Camillo mandò religiosi in Ungheria per curare i soldati feriti e ammalati. In questo modo si può affermare che i Camilliani furono i precursori della Croce Rossa Internazionale, il cui fondatore ebbe ispirazione proprio vedendo i Camilliani all’opera, soccorrendo i feriti tra le tante guerre in Europa nel secolo XIX.
In occasione dell’inondazione provocata dalla piena del Tevere a Roma, Camillo lavorò giorno e notte cercando di mettere in salvo gli ammalati dell’Ospedale Santo Spirito. Oggi l’Ordine ha una propria organizzazione rispondere ai disastri naturali o provocati dall’uomo: la Task–Force Camilliana.
“Vorrei avere cento mani”
L’espansione geografica è stata seguita da importanti innovazioni. Tra queste, la nascita di Congregazioni femminili: le Ministre degli Infermi, le Figlie di San Camillo, l’Istituto Secolare Missionarie degli Infermi “Cristo Speranza”, l’Istituto Stella Maris, le Ancelle Missionarie Camilliane, le Ancelle dell’Incarnazione, Kamillianische Schwestern, la Famiglia Camilliana Laica. Tutte istituzioni legate all’ideale di san Camillo in intima unione con il nostro Ordine. Là dove ci sono Camilliani, quasi sempre ci sono anche “Camilliane”.
ANNO DELLA VITA CONSACRATA: Nominata la nuova Madre Generale delle Suore Apostole della Consolata
Pubblicato: 13 luglio 2015 in UncategorizedIl Capitolo delle Suore Apostole della Consolata ha eletto Madre Paola Becuzzi come nuova Madre Generale al secondo mandato. Madre Paola è anche responsabile regionale USMI.
Ma chi sono le Suore Apostole della Consolata?
“Siamo una famiglia religiosa fondata a Firenze nel 1949 da Madre Quintilla Soligo per “Vivere nella Chiesa la sequela di Gesù Cristo in fraternità per l’annuncio del Vangelo, con una diaconia attenta ed operosa verso i più poveri. Con Maria, Vergine e Madre testimoniamo nel mondo la misericordia e la consolazione di Dio, Padre di tutti gli uomini” (carisma dell’Istituto).
La nostra spiritualità scaturisce dal Vangelo e dalle sue radicali esigenze che Madre Quintilla ha saputo incarnare nel suo vissuto mossa da una grande fede nella volontà di Dio e da un desiderio instancabile di bene verso i più poveri e bisognosi del suo tempo”.
“Essere apostole sempre, apostole ovunque, apostole in ogni luogo e in ogni tempo” (Madre Quintilla).
La famiglia religiosa “Sorelle Apostole della Consolata” nasce a Firenze il 16 novembre 1949 per opera di Suor Quintilla Soligo. Il 19 novembre 1949 il piccolo gruppo viene accolto e ospitato dalla Signora Bugiani in Via degli Alfani, 82. Il 5 dicembre 1949 viene trovato un appartamento in affitto in Via degli Artisti, 16. C’è tanta povertà ma anche tanta gioia: sono i segni delle opere di Dio!
Ancora un’altra tappa nel centro di Firenze: il 25 maggio 1950 si spostano in Via Marsilio Ficino, 12. La casa era più grande ma anche questa fu una sosta temporanea. L’opera della comunità infatti veniva conosciuta ed apprezzata sempre di più e riceveva tante richieste per accogliere bambine e giovani bisognose. Il 25 luglio 1951 la famiglia religiosa Sorelle Apostole della Consolata prende in affitto dai Marchesi Gerini una Villa a Colonnata (Sesto Fiorentino). Qui la sosta è più lunga ma non definitiva. La casa potè accogliere come in una famiglia tante giovani che venivano educate ed avviate al lavoro.
Nell’autunno del 1957 la Madre trova ed acquista Villa La Nerlaia, in Via delle Bagnese, 20 a Firenze che diventa Villa Consolata, la Casa Madre dell’Istituto. Continua l’accoglienza di giovani che hanno la possibilità di frequentare le scuole o di apprendere un mestiere. Intanto la Madre pensava all’apostolato da svolgere e diceva: “Non grettezze, ma grandi idee, grandi quanto lo esige un apostolato moderno” […] “I più preferiti saranno i poveri, gli afflitti gli abbandonati” […] “Intanto vogliamo essere la buona novella vissuta…“. Negli anni ‘60 le povertà del dopo guerra in parte sono superate e la necessità di accogliere ragazze bisognose di formazione ed assistenza pian piano diminuisce. La Madre intravede subito un’altra povertà: accogliere persone anziane che nelle grandi città si trovano sole e tante volte abbandonate.
Con audacia e tanta fiducia nella Divina Provvidenza opera una grande trasformazione della Villa per renderla idonea ad ospitare persone e coniugi anziani. Nel Natale del 1968 dirà agli anziani presenti: “Fino ad ieri non ci conoscevamo…ma oggi per volere di Dio siamo venuti a vivere insieme sotto lo stesso tetto a mangiare allo stesso tavolo, cerchiamo di volerci bene. Per me siete veramente membri della nostra famiglia, per me è come avere altrettanti, secondo l’età genitori, o zii, o sorelle e fratelli. Cerchiamo tutti insieme di vivere in serenità e ancora più in un clima di fede vedendo negli altri Gesù stesso.”In questi anni il nascente Istituto cresce e vengono aperte altre piccole comunità in alcune regioni italiane: Veneto, Lombardia, Lazio, Toscana, Campania e Sicilia.
La Curia Arcivescovile di Firenze segue con attenzione il cammino della comunità e il 1 gennaio 1963, il Cardinal Ermenelgildo Florit, erige a Pia Associazione la famiglia delle Sorelle Apostole della Consolata che diverrà Congregazione religiosa di Diritto diocesano il 31 Luglio 1972. Madre Quintilla sempre attenta ai segni dei tempi vive con tanta apertura speranza l’evento del Concilio Ecumenico Vaticano II. Cerca di tradurre nella sua opera e nella formazione delle Sorelle le spinte e gli appelli di questo grande avvenimento della Chiesa, dal rinnovamento della liturgia all’approfondimento della sacra Scrittura, dal coinvolgimento dei laici alle nuove forme di apostolato. La Madre ha sempre avuto un’attenzione particolare per la famiglia: all’inizio accogliendo bambine e ragazze nel collegio, poi aiutando i genitori ad assumersi il compito della crescita dei figli. Anche con la gestione delle scuole materne la Madre si proponeva di aiutare e sostenere i giovani genitori nell’educazione dei figli. Proprio allora nelle parrocchie le Sorelle iniziano a sperimentano un nuovo modo di collaborare con i laici attraverso una pastorale di comunione. Questo, per esempio, è avvenuto quando, nel 1972, ci siamo inserite nella parrocchia di Villatora – Saonara. Nel dicembre 1971, mentre Madre Quintilla è impegnata in molti progetti per il futuro dell’Istituto, le viene diagnosticato un tumore. Nel marzo 1973, dopo molte cure la Madre viene sottoposta ad un secondo intervento chirurgico che non porta nessun miglioramento.
Il 27 marzo 1973 Madre Quintilla ci lascia per raggiungere la casa del Padre. Ricordiamo ancora le parole che ci ha detto monsignor Giovanni Bianchi nella celebrazione eucaristica: “Care Sorelle non piangete per avere perso la vostra Madre, rallegratevi piuttosto di averla avuta con voi”. Dopo qualche momento di sofferenza e preoccupazione per tale perdita la comunità ha cercato di far proprie le parole lasciate in eredità dal Cardinale Elia Dalla Costa alla Madre: “Avanti figlia carissima, avanti sempre!“. Con la forza dell’esortazione che la Madre stessa ci ripeteva sempre: “Avanti con Cristo fino alla meta della santità” e di tutto quello che ci ha insegnato e testimoniato con la vita, la comu
nità ha guardato avanti con coraggio e slancio apostolico.
Le Sorelle presenti fin dal 1955 a Roma, subito dopo il Concilio, accolgono l’appello del Cardinale Vicario di Roma Ugo Poletti ad andare ad operare nelle borgate situate nella periferia della città. Per questo, nel 1974, la piccola comunità lascia la zona Aurelia, poco lontano da San Pietro, per andare a nord del comune di Roma nella borgata di Santa Maria delle Grazie a Casal Boccone.
Nel settembre 1981 viene aperta una missione ad Azovè nel Benin-Africa e nel gennaio 1996 a Cochin in Kerala-India. Come primo impegno missionario la Comunità ha voluto accogliere l’eredità della Madre che aveva sempre avuto una passione particolare per l’Africa.
Ricordiamo anche le parole incoraggianti del Vescovo Monsignor Robert Sastre, Vescovo di Lokossa – Benin, che venuto a Firenze per invitarci ad andare nella sua Diocesi ci ha detto: “Ciò che è importante nella mia terra è saper parlare la lingua dell’amore, perché questa lingua tutti la capiscono e tutti la comprendono”.
La missione in India anche se è iniziata più tardi era stata da tempo anticipata da un incontro che la madre Fondatrice aveva avuto in treno, durante il Concilio Vaticano II, con padre Joseph Kureethara, un giovane sacerdote indiano studente a Roma. Dopo qualche anno, nominato Vescovo di Cochin, monsignor Kureethara ci ha invitate più volte ad andare nella sua Diocesi ad operare con lo stesso spirito e ardore apostolico di Madre Quintilla.
Il 24 Aprile 1999 la salma di Madre Quintilla viene traslata dal cimitero di Soffiano alla cappella Madre Quintilla situata nel giardino di Casa Madre.
Come operano?
“Ogni giorno sostenute dalla celebrazione eucaristica e dall’adorazione silenziosa davanti al tabernacolo ci sentiamo inviate a portare l’annuncio del Vangelo con la nostra testimonianza di vita, l’opera di evangelizzazione e il servizio ai più bisognosi. “Contemplare Gesù portare ovunque Gesù dopo averlo intensamente vissuto” (Madre Quintilla).
Viviamo in comunità “dove ci si vuol bene, ci si comprende sempre di più, ci si aiuta a vicenda per camminare speditamente verso la santità” (Madre Quintilla). La comunione fraterna è la prima nostra missione per annunciare a tutti con la vita il nuovo comandamento di Gesù: “Io vi do un comandamento nuovo amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (Gv 13,34).
Con uno stile semplice e familiare operiamo in varie realtà (in Italia e in paesi di missioni): nella pastorale parrocchiale e giovanile, nell’educazione alla prima infanzia, nell’assistenza alle persone anziane e bisognose. Ovunque operiamo desideriamo essere “presenze di comunione” cercando di collaborare con tutti per un arricchimento reciproco e per dare a quanti avviciniamo un valido aiuto per la propria crescita umana e spirituale”.
notizie prese dal sito delle Sorelle Apostole della Consolata: http://62.94.212.138/
e grazie a sorella Maria Corti per avercene data cronaca aggiornata
ANNO DELLA VITA CONSACRATA. Ero forestiero e mi avete accolto! Ecco la mappa dei “monasteri” aperti ai rifugiati
Pubblicato: 12 luglio 2015 in UncategorizedFare del bene, senza dirlo. E’ quello che accade in tante strutture religiose sparse in tutt’Italia, che hanno aperto le porte di ex conventi o altre strutture per accogliere i migranti e per rispondere alla crescente richiesta di posti per l’accoglienza, ma anche per trasformare in realtà le parole di papa Francesco di due anni fa, in cui chiedeva di aprire i conventi ai rifugiati. Ad oggi sono tante le strutture religiose che ospitano i migranti, ma non è facile fare un quadro complessivo della situazione. Nel web, però, c’è chi sta cercando di mappare l’impegno dei religiosi. È il progetto Altro da dire, sostenuto dalla fondazione Comunicazione e cultura della Cei e realizzato da Kaleidon, che da un mese a questa parte sta provando a fare una fotografia dell’esistente.
Ad un primo colpo d’occhio, sono centinaia i migranti accolti in ex conventi, case e strutture gestite da religiosi. Un’accoglienza silenziosa, lontana dalla bolla mediatica, ma sparsa in modo capillare su tutto il territorio. Ci sono i guanelliani a Como, Lecco, Nuova Olonio e a Sormano, i francescani ad Enna, Roma e Piglio, i comboniani a Brescia, i pavoniani a Maggio di Valsassina, gli scalabriniani a Roma e Foggia, le suore Mercedarie a Valverde di Scicli, le Figlie di Santa Maria della Provvidenza a Lora (Como) ed Ardenno (Sondrio), le Orsoline a Caserta, le suore della Provvidenza a Gorizia. Poi ancora i salesiani e suore di San Giuseppe di Chambery. Ma la lista è destinata a crescere. “La mappa viene aggiornata man mano che arrivano i dati dai superiori provinciali, contattati inizialmente durante l’assemblea generale di novembre del Cism (Conferenza italiana Superiori maggiori) e Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia) – spiega Laura Galimberti, coordinatrice di ‘Altro da dire’ -. Abbiamo chiesto a molti di fornirci dei dati, ma non tutti rispondono, perché spesso non c’è una propensione a raccogliere dati di questo tipo. Si pensa a fare il bene e non a dirlo”. La sfida è quella di dare un segnale forte, ma anche di rispondere alle boutade che arrivano da alcuni esponenti politici. “L’obiettivo è quello di dire che non è vero che non c’è un’accoglienza da parte dei religiosi – spiega Galimberti -. C’è e piano piano la stiamo raccontando”.
Nella mappa non mancano le zone d’ombra, ma si tratta soltanto di intere regioni da cui non arrivano ancora dati. “Ci sono regioni da cui non abbiamo ancora risposte – spiega Galimberti -. Dobbiamo ancora incanalare e raccogliere altri dati. I miei primi referenti, per il momento, sono i superiori provinciali, ma spesso nei database ci sono indirizzi vecchi e per questo è difficile far arrivare le richieste. Alcune realtà dobbiamo ancora contattarle”. Quelle raggiunte, però, parlano di strutture che accolgono da poche decine fino a centinaia di migranti. Come raccontano gli ultimi dati inseriti. “Ci sono delle risposte numericamente consistenti – spiega Galimberti -, come quella delle Suore della Provvidenza di Gorizia, che accolgono 150 migranti provenienti da Afghanistan e Pakistan nell’ex convento Nazareno”.
“Non potendo promuovere opere di accoglienza per i profughi in prima persona abbiamo messo a disposizione gratuitamente alcune nostre strutture – spiega al portale ‘Altro da dire’ padre Luigi Testa, superiore provinciale degli Oblati di San Giuseppe -: in Sardegna a Frutti d’Oro (Capoterra-Ca) e ad Asti, dove un nostro ex seminario accoglie 50 profughi. A Canelli ancora, nella parrocchia del Sacro Cuore una realtà di accoglienza per 10 minori non accompagnati richiedenti asilo. Le iniziative sono gestite tramite cooperative vicino alla Caritas diocesana e a realtà ecclesiali”. A Pergusa, in provincia di Enna, invece, sono i frati minori conventuali ad accogliere nel villaggio del Fanciullo Sant’Antonio. “Abbiamo messo a disposizione a Pergusa la struttura per accogliere i rifugiati dell’Africa e del Medio Oriente – racconta padre Giambattista Spoto -. Ad oggi accoglie cento fratelli scappati dalla guerra e dalla fame che stanno trovando aiuto e un po’ di speranza nel futuro”. A sottolineare l’impegno dei religiosi anche padre Luigi Gaetani, presidente della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori: “I religiosi non si tirano indietro rispetto all’invito del Papa. Sanno bene, da sempre, che la carità non è part time”.(ga)
ANNO DELLA VITA CONSACRATA: Incontriamo Padre Aldo Trento con Costanza Miriano
Pubblicato: 11 luglio 2015 in UncategorizedIeri mattina con mio marito abbiamo incontrato un santo. Si chiama Padre Aldo Trento e un sacco di gente lo conosce molto meglio di me, e da tempo, quindi forse non riuscirò ad aggiungere niente di nuovo, ma comunque non posso proprio tenermi tutto per me, per noi, il regalo che abbiamo ricevuto.
Padre Aldo Trento, come dice la mia amica Elisabetta, è un contenitore trasparente di misericordia. Trabocca misericordia ricevuta e la regala con ogni parola e ogni sguardo, pur non essendo affatto sdolcinato (ma anzi piuttosto incline al turpiloquio in caso di necessità).
Questa del contenitore trasparente è esattamente la stessa immagine che è venuta in mente anche a me mentre lo ascoltavo parlare, raccontare la sua vita in Paraguay e la storia che lo ha portato fin lì, ed è curioso che quando lo ho accompagnato alla stazione (sul mio cassonetto coi tergicristalli travestito da macchina) quella è stata proprio l’immagine con cui mi ha lasciata: “se il bicchiere non è tutto, completamente pieno di acqua, se c’è anche un minuscolo spazio vuoto, ci possono entrare altre cose, magari un moscerino,ma qualcosa entra. Se invece noi siamo tutti, completamente ricolmi di Cristo, allora niente può entrare. E per far questo occorre preghiera, e una fedeltà all’eucaristia e una frequenza massima del sacramento della confessione, che è l’unico che possiamo prendere anche cinquantamila volte nella nostra vita”.
“Io da quando la mamma mi ha fatto fare la prima confessione – ha raccontato Padre Aldo – non ho mai tralasciato di confessarmi almeno una volta alla settimana, a volte anche di più. Mai, mai tralasciato una settimana. E poi, l’altra cosa che mi ha difeso è stata l’obbedienza a qualcuno: io mi sono sempre fidato di Don Giussani, che ti guardava dentro, e aveva per ognuno una pedagogia particolare, individuale”.
Padre Aldo, lo ha già raccontato lui più volte, si era innamorato, ricambiato, di una donna, una vedova mamma di tre figli, ma essendo già sacerdote aveva consegnato il suo cuore a Dio attraverso l’obbedienza a Don Giussani, rimettendo a lui la decisione, consegnandogli con uno sforzo immane la sua libertà. Don Giussani non lo sgridò, non gli fece la predica per gli sbagli commessi, ma anzi gli disse di accogliere la realtà che bussava, di non buttare niente di quello che provava, rimanendo nell’obbedienza. “Parti per il Paraguay” – fu però la sua risposta, che serviva a mettere una distanza tra lui e quella donna, per non perderla con il suo desiderio di possesso, che è poi il contrario del vero amore. Per quindici anni il Padre non ha dormito, e ha combattuto tutta una vita con la depressione. Ma di questo amore si è nutrita la sua opera laggiù, un’opera di una bellezza – dicono – impressionate (ospedali e chiesa e casa di accoglienza). Questo dolore, questa ferita, è stata la domanda che lo ha costretto a chiedersi “di chi sono io? A chi appartengo? A chi voglio piacere? Perché stare qui in questa fatica?”
La domanda che mi è venuta, perché io in fondo sono una borghesuccia che vuol fare la brava bambina, che ha paura di perdere la faccia, la reputazione, la stima della gente, è stata: “ma non ti sei mai rammaricato per avere fatto certi errori, per essere passato da questo dolore, non sarebbe stato meglio essere preservati?” No, perché dove c’è il peccato c’è la misericordia, altrimenti rimani con una fede borghese, dove ti sistemi, vai avanti per abitudine, alla fine tutto ti va benino, ti sistemi nella tua vita, e Gesù Cristo diventa irrilevante (la ciliegina sulla torta, dice padre Emidio). Così invece nell’abisso del dolore Padre Aldo si è dovuto chiedere ragione della fatica, ha dovuto gridare a Gesù, lasciarsi riempire da lui, davvero, perché era una questione di vita o di morte. Perché fino a che non è così noi non ci convertiamo davvero a Cristo, non riconosciamo che lui è la nostra vita, ed è la nostra verità, non nel senso che è un dispensatore di norme morali vere ma esterne a noi. Cristo è la nostra verità perché noi senza di lui non siamo.
Ci vorrebbe uno scrittore per rendere la misericordia, la tenerezza con cui Padre Aldo parla dei suoi malati, di quelli che accompagna a morire, dei bambini violentati che accoglie, dei trans e degli omosessuali malati di Aids che credono di essere stati castigati, per i quali lui perde la vita a cercare di farsi Cristo a loro, quel Cristo che non giudica nessun peccatore ma perdona e ama e basta.
A un certo punto mentre descrivevo le polemiche intorno al Sinodo e le fazioni e guardavo la faccia stralunata con cui padre Aldo mi ascoltava, mi sono sentita così ridicola, così buffa… Lo so sono questioni importantissime, ma in lui c’è solo – il bicchiere è pieno – l’urgenza di amare, abbracciare, ascoltare, mettersi al fianco di chi sta male per dirgli: sto male anche io. Non ho soluzioni però posso stare male vicino a te, ti abbraccio e mi faccio veramente vicino vicino a te. E posso dirti da chi devi farti riempire il bicchiere, perché il nostro desiderio di amore alla fine è desiderio di infinito.
ANNO DELLA VITA CONSACRATA: Il Papa ai religiosi, sacerdoti e seminaristi in Bolivia
Pubblicato: 10 luglio 2015 in UncategorizedLe testimonianze dei consacrati
Quattro testimonianze aprono l’incontro con il Papa: mons. Roberto Bordi, vescovo incaricato della vita consacrata in Bolivia, ricorda che quanti sono chiamati ad annunciare il Vangelo sono i primi che hanno bisogno di essere costantemente evangelizzati. Solo chi si lascia sempre convertire da Dio può contagiare gli altri con la gioia della buona novella. Il presule elenca le sfide della Chiesa in Bolivia: il secolarismo che avanza, la crisi della famiglia, la corruzione, il narcotraffico, la povertà, le contrapposizioni politiche e ideologiche. Ma tutto nella consapevolezza che il bene è più potente del male perché produce la vita vera. Un sacerdote di Cochabamba ricorda le sue origini contadine. Ha ascoltato la voce di Dio è ha lasciato tutto. Sottolinea l’importanza della vita comunitaria per vivere la fede. Suor Gabriella parla del suo incontro con il Cristo vivo nella preghiera, nell’Eucaristia nell’ascolto della Parola di Dio e nel suo lavoro nel campo dell’educazione. Oggi – afferma – abbiamo sempre più bisogno di diffondere la speranza in un mondo sempre più triste. Infine, un seminarista, figlio di un minatore, parla della sua vocazione, nata grazie alla madre che gli ha insegnato a non dimenticare mai di pregare.
I cristiani indifferenti di fronte al dolore dell’altro
Papa Francesco ascolta con attenzione, ringrazia, abbraccia. Poi svolge la sua meditazione a partire dal Vangelo in cui Bartimèo, cieco e mendicante, si accorge che sta passando Gesù e grida. Il Papa elenca tre reazioni dei seguaci di Gesù davanti al dolore dell’uomo. Innanzitutto c’è chi passa accanto ma resta nell’indifferenza, non si lascia toccare, si è abituato all’ingiustizia. Ha “un cuore blindato, chiuso, ha perso la capacità di stupirsi e quindi la possibilità di cambiare. Quante persone che seguono Gesù corrono questo pericolo!”. Si crede di seguire Gesù ma senza lasciarsi coinvolgere dal fratello che soffre. E la vita diventa arida. Francesco la definisce “spiritualità dello zapping”: sono quelli che “vanno dietro all’ultima novità, all’ultimo best seller, ma non riescono ad avere un contatto, a relazionarsi, a farsi coinvolgere”.
I cristiani che fanno dell’identità una questione di superiorità
Il secondo atteggiamento davanti al grido di Bartimeo – dice il Papa – è quello di chi gli ordina di stare zitto, di non disturbare. Sono quelli che rimproverano sempre: “Sono i vescovi, i sacerdoti, le suore, il Papa … con il dito così”. “È l’atteggiamento di coloro che di fronte al popolo di Dio, stanno continuamente a rimproverarlo, a brontolare, a dirgli di tacere. Dategli una carezza per favore, ascoltatelo, ditegli che Gesù gli vuole bene … ‘Ma non si può fare, signora, cos’ha questo bambino che piange mentre io predico?’. Come se il pianto di un bambino non fosse una sublime predica!”. “È il dramma della coscienza isolata, di coloro che pensano che la vita di Gesù è solo per quelli che si credono adatti, ma in fondo hanno un profondo disprezzo per il popolo fedele di Dio”. “Sembrerebbe giusto che trovino spazio solo gli ‘autorizzati’, una ‘casta di diversi’ che lentamente si separa, differenziandosi dal suo popolo. Hanno fatto dell’identità una questione di superiorità”: “non sono più pastori, ma sono capitani” che sempre pongono “barriere al popolo di Dio”. E questo atteggiamento “li ha allontanati, non solo dal grido della loro gente, o dal loro pianto, ma soprattutto dai motivi di gioia. Ridere con chi ride, piangere con chi piange, ecco una parte del mistero del cuore sacerdotale e del cuore consacrato”.
Non avere paura di lasciarsi coinvolgere dal dolore della gente
Infine – afferma Papa Francesco – c’è chi fa come Gesù che “si ferma di fronte al grido di una persona e si impegna con lui. Mette radici nella sua vita. E invece di farlo tacere, gli chiede: Che cosa posso fare per te?”. “Non esiste una compassione, una compassione, che non si fermi, se non ti fermi non hai la divina compassione, non ascolti e non solidarizzi con l’altro”. “La compassione non è zapping, non è silenziare il dolore, al contrario, è la logica propria dell’amore. È la logica che non si è centrata sulla paura, ma sulla libertà che nasce dall’amore e mette il bene dell’altro sopra ogni cosa. È la logica che nasce dal non avere paura di avvicinarsi al dolore della nostra gente. Anche se molte volte non sarà che per stare al loro fianco e fare di quel momento un’occasione di preghiera”.
Siamo testimoni della misericordia di Gesù, non di una ideologia
Noi – conclude il Papa – “non siamo testimoni di un’ideologia, di una ricetta, di un modo di fare teologia”, “non siamo “funzionari di Dio”, “siamo testimoni dell’amore risanante e misericordioso di Gesù”, “non perché siamo speciali, non perché siamo migliori” ma “perché siamo testimoni grati della misericordia che ci trasforma”.
ANNO DELLA VITA CONSACRATA: seconda edizione della Scuola di Alta Formazione in Management Pastorale
Pubblicato: 9 luglio 2015 in UncategorizedIl Direttore della Scuola
Prof. Giulio Carpi
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