di Pascual Chavez V., SDB
per continuare a leggere la Lettera scritta in occasione dell’Anno della vita consacrata…
3. Costruendo sulla roccia
Tempo fa parlavo di una vita consacrata di tipo liberale che ormai ha esaurito le sue possibilità e non ha più futuro 1 . Si sono fatti sforzi di rinnovamento e si è tentato di crescere, ma non esattamente secondo la logica di una vita che è consacrata prima di tutto a Dio. Molte esperienze convalidano il sospetto che si è voluto costruire la casa sulla sabbia, e non sulla roccia. Ogni tentativo di rifondare la vita consacrata che non ci riporti a Gesù Cristo, fondamento della nostra vita (cf. 1Cor 3, 11), e non ci renda più fedeli al proprio fondatore e più impegnati nella costruzione del Regno, è destinato a fallire.
Non c’è dubbio che la Vita Consacrata stia vivendo un momento ancor più delicato di quello dell’immediato post-Concilio, malgrado tutti gli sforzi di rinnovamento fatti, soprattutto da parte di quelle Congregazioni che, sorte con una particolare finalità sociale, essendo venuto meno questo loro specifico servizio, soffrono di un certo anacronismo e sono alla ricerca di una nuova attualizzazione del loro carisma. Le cause di questo malessere sono diverse e, spesso, dipendono anche dai differenti contesti. In alcune parti del mondo le difficoltà della Vita Religiosa sono legate al declino della natalità, alla crescita del benessere materiale e ad un clima culturale generalmente secolarizzato; in altre regioni si rileva una certa mancanza di identità, di visibilità e di credibilità di una vita religiosa che, per sua natura, è carismatica e, quindi, dovrebbe avere una forte connotazione spirituale, mentre che sovente viene vista come una ONG provveditrice di servizi sociali. Molto grave infine è stato il danno provocato dagli scandali nati dalla denuncia di abusi contro minori. Questo insieme di cause, senza la pretesa di assolutizzare l’insieme di questi problemi, ha fatto sì che la maggioranza delle Congregazioni sia diminuita in numero di membri, con una particolare rilevanza del problema in Europa e nel mondo occidentale.
Davanti a questo panorama può emergere la tentazione di un semplice ritorno al passato, dove recuperare sicurezza e tranquillità, a prezzo di una chiusura ai nuovi segni dei tempi, che ci spingono a rispondere con maggiore identità, visibilità e credibilità.
La soluzione non sta in scelte restauratrici; non si può infatti sottrarre alla vita consacrata la forza profetica che, dal suo inizio, sempre l’ha contraddistinta e che la rende dinamica e contro-culturale. Come già ho detto più volte, ciò che è messo in gioco durante i prossimi anni non è la sopravvivenza, ma la profezia, elemento basilare della vita consacrata. Non dobbiamo quindi coltivare un “accanimento istituzionale”, cercando di prolungare la vita ad ogni costo; dobbiamo piuttosto cercare con umiltà, con costanza e con gioia di essere segni della presenza di Dio e del suo amore per l’uomo contemporaneo. Solo così potremo essere una forza trainante ed affascinante.
Ebbene, per essere una presenza profetica nella Chiesa e nel mondo, la vita consacrata deve evitare la tentazione di conformarsi alla mentalità secolarizzata, edonista e consumista di questo mondo e deve lasciarsi guidare dallo Spirito, che l’ha fatta sorgere come forma privilegiata di sequela e di imitazione di Cristo.
Potremo così conoscere ed assumere il volere di Dio su di noi, in questa fase della storia, e portarlo dentro la nostra vita con gioia, convinzione ed entusiasmo. «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2). Non possiamo dimenticare che la vita cristiana, e a più ragione la vita consacrata, non ha altra vocazione e missione che essere «sale della terra» e «luce del mondo».
Sale della terra siamo noi quando viviamo lo spirito delle beatitudini, quando costruiamo la nostra vita a partire dal discorso della montagna, quando viviamo un’esistenza alternativa. Si tratta di essere persone che, di fronte a una società che privilegia il successo, l’effimero, il provvisorio, il denaro, il godimento, la potenza, la vendetta, il conflitto, la guerra, scelgono la pace, il perdono, la misericordia, la gratuità, lo spirito di sacrificio, cominciando dal cerchio ristretto della famiglia o della comunità per allargarsi poi alla società. Questa missione è urgente più che mai in un mondo scandalosamente diviso, nel campo sociale, e sempre più intollerante, nella sfera religiosa.
Gesù ci avverte infatti della possibilità che il sale perda il sapore, che i suoi discepoli non siano autentici. Egli segnala gli effetti disastrosi di ciò: «A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini». O siamo discepoli con chiara identità evangelica, quindi significativi e utili per il mondo, o siamo da buttar via e da disprezzare, siamo degli infelici, non siamo nulla. Il cristianesimo, la fede, il vangelo, la vita consacrata hanno una valenza sociale e una responsabilità pubblica, perché sono vocazione e missione, e non possono essere intesi e vissuti “ad uso privato”.
Questo è il senso dell’esortazione con cui Gesù conclude le sue parole: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini». Gesù vuole che i suoi discepoli facciano del discorso della montagna un programma di vita. Mitezza, povertà, gratuità, misericordia, perdono, abbandono a Dio, fiducia, amore agli altri sono dunque le opere evangeliche che si devono far risplendere, quelle che ci fanno diventare “sale” e “luce”, quelle che ci aiutano a creare quella società alternativa che non permette all’umanità di corrompersi del tutto.
Da consacrati, noi siamo chiamati ad essere speranza, ad essere luce e sale; siamo chiamati a una missione verso la società e il mondo, una missione riassumibile in una parola: santità, che non vuol dire auto-perfezione, il che sarebbe una futile pretesa narcisistica, ma che è frutto della totale apertura a Dio attraverso la ricerca del suo volto, il discernimento della sua volontà, la intimità del suo amore, la partecipazione alla sua missione, e frutto pure dell’apertura agli altri attraverso l’uscita di noi incontro loro, l’attenzione ai loro bisogni, la solidarietà con le loro gioie e speranze e con le loro tristezze e angosce, la disponibilità a servirli! Essere luce e sale vuol dire essere testimoni luminosi, radianti, attraenti di Gesù e del suo Vangelo.
Ci diceva Giovanni Paolo II: «Sarebbe un controsenso accontentarci di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalista e di una religiosità superficiale… È ora di proporre a tutti con convinzione questa “misura alta” della vita cristiana ordinaria»2, che è appunto la santità.
Se è vero che la vita consacrata è «dono divino, che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore», «albero piantato da Dio nella Chiesa», «dono speciale che aiuta la Chiesa nella missione salvifica» e che essa «appartiene fermamente alla vita e santità della Chiesa» (LG 43 e 44), ne consegue che un giubileo, come questo dell’anno della Vita Consacrata, è un evento ecclesiale nel senso autentico della parola. Si tratta di un vero “kairós”, in cui Dio opera per portare la Chiesa ad essere sempre più sposa di Cristo, tutta splendente, senza macchia e senza rughe.