di Pascual Chavez V., SDB
per continuare a leggere la Lettera scritta in occasione dell’Anno della vita consacrata…
7. Spinti dalla conversione personale e pastorale
I cambiamenti cui stiamo assistendo sono così profondi e repentini che sembra non ci sia il tempo di assimilarli adeguatamente nell’unità del nostro soggetto umano. Il rischio è che tale frammentarietà diventi in qualche modo interna all’io, rendendoci tutti più fragili ed esposti alla manipolazioni di poteri anonimi.
– Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero…?
Davanti a questo scenario così sfidante ed impegnativo non c’è spazio per la fuga e sì invece per una rinnovata responsabilità. Da questo punto di vista la nostra forma di vita deve potersi fare carico di nuovo della preziosa domanda che Gesù rivolge ai suoi interlocutori: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9.25).
Si tratta di domandarci che cosa può permettere all’uomo, nel caso nostro ai giovani, di vivere pienamente nel mondo e approfittare delle sue straordinarie potenzialità senza perdere se stesso. In questo contesto, la perdita di sé va intesa qui come la perdita della propria libertà, non solo come autonomia, ma come possibilità di tendere ad un bene ultimo e definitivo, in grado di integrare tutto ciò che si può sperimentare durante la propria vita.
In questo tentativo di rinnovamento, per essere più rispondenti alle sfide odierne, c’è però una serie di fattori che non si possono sottovalutare, ma che nel contempo non possono essere determinanti al grado di una paralisi che non permetta muoversi e vivificare il corpo sociale. Mi riferisco all’invecchiamento e insufficienza del personale, allo scarso flusso vocazionale, alla complessità e pesantezza delle strutture, alle resistenze per un lavoro di vera corresponsabilità con i laici.
– Ristrutturazione delle opere come conversione pastorale
Non c’è dubbio che l’attuale contrazione numerica in Occidente genera non poco affanno nel governo delle province, che hanno numerose opere per le quali dispongono di sempre meno personale. Spesso i confratelli si lasciano prendere da un’eccessiva frenesia delle opere e da un attivismo che svuota la loro vita spirituale e li rende deboli e maggiormente vulnerabili.
Oggi è un fatto comune parlare della complessità e pesantezza delle opere senza riuscire, nello stesso tempo, a creare delle strutture più agili e ugualmente efficaci ai fini della missione. La riconversione delle tradizionali forme in strutture più agili risulta spesso assai difficile e conflittuale: pensiamo ai “drammi” relativi alla fusione di provincie e di chiusura forzata di opere e comunità. Certamente l’assunzione di personale laico, volontario o professionale, per il mantenimento e funzionamento delle opere, sta diventando sempre più una realtà consolidata, ma c’è ancora tanta strada da fare. I cambiamenti urgono un ripensamento strutturale e, al tempo stesso, stimolano noi religiosi ad una maggior trasparenza e radicalità nel vivere il proprio carisma.
– Il perché della ‘conversione pastorale’
Cercando di trovare soluzioni ai problemi pastorali, per la prima volta ad Aparecida (Brasile), nella Vª Conferenza Generale della CELAM, si è parlato non solamente del bisogno di ‘conversione personale’ per definire meglio la condizione del discepolo di Gesù, come una persona che per prima si sottomette alla signoria di Gesù e della sua Parola per poter diventare un suo ardente missionario.
Si incominciò infatti pure a parlare dell’esigenza della necessità di una ‘conversione pastorale’, per dire che le strutture e la burocrazia non possono prevalere sulla missione evangelizzatrice, che le programmazioni, pur necessarie, non possono affogare la spinta missionaria.
Questo ci fa capire che la ristrutturazione che ci si chiede non è fondamentalmente un atto amministrativo o giuridico, ma è un processo profondamente pastorale, perché significa renderci presenti in forma nuova dove siamo, più rispondente ai bisogni dei destinatari e per renderci presenti in campi dove finora non siamo stati e dove oggi è più rilevante la nostra presenza.
Non si tratta di ritirarsi o di ammainare le vele, ma del triplice e simultaneo processo di risignificazione, ridimensionamento e ricollocazione. Si tratta di imparare l’arte di morire e l’arte di vivere, lasciando andare ciò che deve morire, perché il nuovo possa germinare, fiorire e fruttificare. E questo è frutto dello Spirito, che strappa il cuore di pietra e trapianta un cuore di carne e così rinnova la faccia della terra.
– La novità dello Spirito
La giovinezza e la perenne novità della Chiesa e dell’umanità sono frutto dell’Uomo Nuovo, il Signore Risorto, come racconta il Vangelo di Giovanni, che situa la venuta dello Spirito nello stesso giorno della Resurrezione di Gesù.
Alitando il suo Spirito, il Signore Gesù, l’Uomo Nuovo, dà ai discepoli la missione e la possibilità di essere uomini nuovi e di fare nuova l’umanità col perdono e la riconciliazione (Gv 20:19-23).
È stato proprio lo Spirito Santo ad impedire che la Chiesa restasse sinagoga, cioè luogo chiuso per eletti, per persone che non si riconoscono peccatori e non vogliono essere perdonati. Quella Chiesa, scaturita dal Cenacolo, è tentata sempre di rientrarvi e rinchiudervisi di nuovo. E’ tentata di non lasciarsi perdonare, di non avere il perdono come compito. Soprattutto quando fuori spira vento di contraddizione. E allora, ecco ricomparire i segni della paura: il piccolo gregge, anziché lanciarsi fuori, si rinchiude e si isola, senza nemmeno rendersi conto che non tutti coloro che premono lo fanno solo per abbattere una porta chiusa, ma anche per entrare. Solo lo Spirito può ridare coraggio ad ogni svolta della storia e della società. Solo Lui può spingere affinché ci mettiamo alla guida di itinerari verso nuovi traguardi per il regno di Dio e per l’uomo.
Ma lo Spirito dato da Gesù Risorto significa per noi anche un’altra cosa: è il marchio dell’identità, cioè della distinzione dal mondo. Guai se lo dimenticassimo, per cedere alla seduzione del mondo, della sua logica! Egli, lo Spirito, assicura la fedeltà della Chiesa a Cristo. Fa sì che la nostra causa col mondo sia e resti davvero «la causa di Gesù» («la verità»!) e non divenga una causa diversa.
Una vita cristiana, e a più ragione una vita consacrata, addolcita, imborghesita, senza slancio, rischia di diventare irrilevante, innocua. Non ha più niente da dire a nessuno. L’uomo d’oggi è un uomo distratto, disincantato, indifferente, abituato a tutto. Proprio per queste sue caratteristiche, va scosso vigorosamente con una testimonianza che sia particolarmente provocante per le sue abitudini.
Dobbiamo recuperare la dimensione «pentecostale, spirituale» della vita cristiana; dobbiamo ritrovare lo Spirito. Non mi preoccupa l’attuale crisi della Chiesa e della vita consacrata. Ciò di cui ho paura è di una vita cristiana e consacrata insignificante; e il cristiano non significa nulla, non ha nulla da dire; non dà fastidio a nessuno, quando non è spirituale.
La nostra fede, la nostra vocazione consacrata, non possono cedere alle soluzioni facili, ai compromessi, alle benevole concessioni, agli ammiccamenti equivoci, al gioco di equilibri, per rimediare ai vuoti. Non può rinunciare, ai suoi ideali e ridurre le proprie pretese (che sono poi quelle stabilite dal Cristo), arrivare ad amichevoli composizioni e a generose transazioni, pur di recuperare popolarità e infoltire le file. Appunto perché la rilevanza della fede oggi dipende dalla sua identità e non dal grado di accoglienza sociale, crediamo nella necessità di un impegno sempre più arduo in questa linea. Occorre giocare al rialzo e osare la chiarezza, ossia dire apertamente chi siamo, che cosa vogliamo, che cosa chiediamo, senza attenuare le pretese ed esigenze.